La digitalizzazione spinge la redditività degli studi. Ma innovare per legge non basta
La spesa in tecnologie Ict di avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro e studi multidisciplinari raggiunge nel 2018 il valore di 1.265 milioni di euro, con una crescita del 7,9% rispetto all’anno precedente, trainata dall’adempimento a obblighi normativi e da una crescente consapevolezza dell’utilità degli strumenti digitali per le attività delle professioni economico-giuridiche.
Le tecnologie più utilizzate sono la firma elettronica (già adottata dal 97% degli studi), la fatturazione elettronica (lo strumento che cresce maggiormente, dal 42% all’82%, spinto dall’obbligo normativo), seguite a distanza da archivio digitale dei documenti (47%), conservazione digitale (45%), VPN – reti virtuali private (44%) e videochiamate (42%).
Meno di quattro professionisti su dieci (38%) hanno un sito Internet, solo il 29% è presente sui social media e appena il 23% utilizza strumenti di e-learning. Ancora marginale l’adozione di tecnologie di frontiera, come la Business Intelligence (3%), la Blockchain (2%) e l’Artificial Intelligence (1%).
Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, presentata oggi a Milano al convegno “Dati, dati, dati: l’Umanesimo digitale per i professionisti”. «Le professioni economico-giuridiche mostrano una crescente consapevolezza sulle tematiche digitali, sulle nuove dinamiche di mercato e sull’impiego delle soluzioni informatiche in grado di migliorare con una certa ambizione i modelli organizzativi e di business – commenta Claudio Rorato, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale -. E l’impatto delle nuove tecnologie sulla redditività degli studi gli dà ragione: oltre la metà degli studi in cui sono più presenti strumenti digitali ad alto tasso di innovatività ha registrato un aumento superiore al 10%. Le sfida per il futuro sarà aumentare la diffusione di cultura innovativa e approccio collaborativo, che adesso, pur in crescita, interessa circa un terzo degli studi professionali».
«Le tecnologie più diffuse sono ancora quelle imposte dagli obblighi normativi, come la fatturazione elettronica e la conservazione digitale a norma, ma dalla ricerca emerge anche un crescente interesse per altre tecnologie, come i portali per la condivisione di documenti con la clientela (+10%), i software per il controllo di gestione (+9%), per le videochiamate (+8%) e per la gestione documentale (+7%) – afferma Elisa Santorsola, Direttore dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale -. Stenta ancora a decollare il sito internet, stabile sia nell’utilizzo (38%) sia nell’interesse (27%). È il sintomo di una cultura ancora in formazione per quanto riguarda l’orientamento al mercato, soprattutto quello potenziale, ancora difficile da percepire nelle categorie professionali, soprattutto in termini di nuove azioni da attivare».
Tornando ai dati della ricerca, aumentano gli studi professionali che si sentono tecnologicamente pronti per il futuro (42%, contro il 38% del 2017), ma ancora oltre la metà ritiene la propria dotazione inadeguata a coprire le esigenze future (54%). In risposta a questa incertezza, nel 2018 soltanto l’1% degli studi non ha investito in ICT (dal 2% all’1%), crolla la percentuale di professionisti che spendono meno di mille euro (dal 22% all’8%) e di quelli che stanziano fra i mille e i 3mila euro (dal 30% all’11%), mentre raddoppiano gli studi che spendono fra i 3mila e i 10mila euro (dal 36% al 75%). Gli studi multidisciplinari si confermano la categoria professionale che investe maggiormente in strumenti digitali, con una spesa media di 15.500 euro (+9,9%), seguiti dai commercialisti con 9.400 euro (+6,8%), dai consulenti del lavoro con 8.900 euro (+2,3%%) e dagli avvocati, che con 6.000 euro di investimenti sono i professionisti col budget più limitato ma con la crescita di spesa più significativa (+13,2%).
Sette PMI su dieci sono soddisfatte dei servizi tradizionali offerti dagli studi, ma se si considerano i servizi innovativi abilitati dalla capacità di raccogliere e sfruttare i dati la situazione cambia. Solo il 29% delle aziende condividerebbe altri dati con gli studi professionali, che in generale appaiono impreparati su questo fronte: appena un quarto fornisce servizi di controllo di gestione e circa il 3% utilizza i software di business intelligence per organizzare servizi basati sui dati.
Digitalizzazione e collaborazione spingono la redditività degli studi – Più gli strumenti digitali a disposizione dello studio sono innovativi più cresce la sua redditività. Secondo la ricerca, infatti, la presenza di tecnologie a basso livello di innovazione fa crescere lo studio nel 57% del campione intervistato (fino al 10% nel 43% dei casi e oltre il 10% per il 14% dei professionisti). Percentuale che sale al 60% se sono presenti strumenti a media innovatività (di cui il 21% cresce di oltre il 10%) e al 69% se lo studio usa tecnologie ad alto tasso di innovazione (fra cui ben il 53% cresce più del 10%).
L’Osservatorio ha analizzato anche il livello di digitalizzazione, collaborazione e cultura innovativa delle professioni economico-giuridiche. Il percorso per la digitalizzazione degli studi professionali è ancora lungo, con il 61% che rivela un livello scarso o appena sufficiente. Gli obblighi normativi spingeranno i professionisti a digitalizzare maggiormente i propri processi, ma già adesso una minoranza sta acquisendo conoscenze in grado di andare oltre l’adempimento normativo e offrire nuovi servizi alla clientela. Appena il 37% degli studi adotta un approccio collaborativo positivo sia nelle relazioni interne sia in quelle esterne allo studio, con alcune differenze fra le diverse categorie professionali.
I più collaborativi sono gli studi multidisciplinari, che usano i portali per la condivisione documentale nel 46% dei casi, seguiti dai commercialisti (37%), dai consulenti per il lavoro (32%) e dagli avvocati (18%). Quasi due terzi dei professionisti sono ancora dotati di scarsa o sufficiente cultura innovativa, segno che mancano ancora quei comportamenti in grado di orientare le azioni di carattere innovativo. Lacune correlate anche a una formazione ancora indirizzata prevalentemente alle tematiche giuridico-economiche, con solo il 20-30% circa dei professionisti che ha partecipato a corsi di formazione incentrati su altre competenze e percentuali decisamente inferiori per i dipendenti (max 8%). Per questi ultimi la formazione prevalente è ancora quella dedicata all’uso delle tecnologie di studio (12%).
«Soltanto una percentuale compresa fra il 36% e il 39% circa degli studi professionali si colloca a un livello elevato nelle tre componenti tipiche dell’economia digitale: collaborazione, digitalizzazione e cultura dell’innovazione – commenta Claudio Rorato -. Tuttavia, la fascia di professionisti con un punteggio sufficiente in queste dimensioni tende ad allargarsi rispetto agli anni precedenti. È il segnale della crescita dell’alfabetizzazione digitale tra i professionisti, anche se a un livello ancora poco evoluto».