Brexit fa rima con business

“Darling you got to let me know / Should I stay or should I go?” Non solo i Clash nel 1982, anche i quasi 65 milioni di abitanti del Regno Unito, oggi, nel 2016, se lo stanno chiedendo. Solo che la “darling” in questione non è una donna come nel brano contenuto nell’album Combat Rock, ma è l’Unione europea. ?Il 23 giugno, infatti, il popolo britannico è chiamato a decidere se restare o meno in Europa nel referendum indetto dal premier David Cameron. L’eventualità di una “Brexit”, ossia l’uscita del Paese dall’Ue, era fino a poco tempo fa una possibilità piuttosto remota, una provocazione proveniente da partiti populisti ed estremisti come l’Ukip di Nigel Farage più che una prospettiva concreta o realistica. In particolare, la tensione tra Ue e Uk sembrava essersi allentata dopo l’accordo raggiunto tra Cameron e i vertici europei a Bruxelles lo scorso 19 febbraio, che di fatto rafforza lo status speciale del Paese all’interno dell’unione (si veda il box). Tuttavia, la sortita del popolare sindaco di Londra Boris Johnson, schieratosi a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, ha rimescolato le carte in tavola. E ora il dibattito si arricchisce di sempre nuove voci a favore di uno schieramento o dell’altro. Nessuno, a oggi, sa dire esattamente quale potrà essere l’esito del referendum e quali saranno le conseguenze politiche ma soprattutto economiche e commerciali, per tutte le aziende, gli studi legali e le banche che lavorano nella principale piazza economica del Vecchio Continente. In termini relazione pratica tra Europa e Regno Unito, tutto ciò che ora lega le due realtà verrebbe meno. Quindi, non solo, come suggerisce Francesco Sciaudone, partner di Grimaldi, «i duemila lavoratori inglesi nelle istituzioni europee rischierebbero di perdere il posto», ma il Paese perderebbe tutti i fondi europei che ora finanziano ad esempio progetti di ricerca e costruzioni. Dall’altra parte, però, la regione andrebbe a risparmiare sui miliardi di sterline che ogni anno versa nelle casse della Ue e che, nel 2013, hanno toccato 8,64 miliardi di euro, pari allo 0,5% del Pil britannico. Una mancanza che verrebbe colmata dagli altri Paesi dell’Unione, i quali vedrebbero aumentare la propria quota da versare nelle casse europee (circa 1,4 miliardi in più per l’Italia).

Tutto sbagliato, tutto da rifare
Quello che è certo è che il prezzo che il Regno Unito dovrà pagare per l’eventuale indipendenza dall’Ue sarà caro, principalmente in termini di maggiore instabilità. La conseguenza pratica più immediata ed evidente sarà, come evidenzia Massimiliano Danusso, partner di BonelliErede, «una crescita immediata della quantità di lavoro degli studi», soprattutto perché «tutti i rapporti contrattuali esistenti dovrebbero essere cambiati, basti pensare a tutte le banche inglesi presenti in Italia in regime di libera prestazione dei servizi, con prospetti armonizzati secondo le norme comunitarie che, dal momento in cui il Regno Unito dovesse uscire dall’Ue, non sarebbero più valide». Un primo tema riguarderebbe «il regime di libera circolazione delle merci e dei servizi», aggiunge l’avvocato, «che necessiterebbe di una enorme modifica, ad esempio prevedendo l’introduzione dei dazi doganali con conseguenze enormi per lo scambio, in termini di volumi e di valori, dei beni e dei servizi». Un blocco che vale molto (solo l’Italia scambia 30 miliardi di euro nel 2015, in termini di il valore delle esportazioni di beni e servizi) e che secondo Citibank, potrebbe far perdere al Paese l’1,5% di Pil all’anno tra il 2016 e il 2018.
Per Massimiliano Nitti, socio di Chiomenti, «l’ipotesi di un’uscita dall’Ue potrà dunque implicare, a tendere, un minor flusso di scambi commerciali con l’Italia», tuttavia «i sostenitori del Brexit profetizzano che il Regno Unito supplirà a tale minore flusso di interscambio con i paesi dell’Unione rafforzando le relazioni commerciali con altri Paesi extraeuropei». È possibile quindi «che il Regno Unito approfitterà della maggiore flessibilità, derivante dall’uscita dall’Unione, per cogliere rapidamente tutte le opportunità offerte dai mercati extra-europei», aggiunge. Secondo Jeroen Jansen, partner di Dla Piper, il Regno Unito potrebbe invece «adottare vari modelli tuttora in essere, come l’accesso per il Regno Unito allo Spazio economico europeo e all’Associazione europea di libero scambio – come per la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein. Oppure la stipula di trattati bilaterali, come ad esempio quelli con la Svizzera, o di altri accordi di libero scambio che l’Ue ha siglato con paesi terzi». Nel caso in cui il Regno Unito dovesse uscire dall’Ue e non vi fosse alcun accordo transitorio, aggiunge, «il Paese cesserebbe di avere accesso al mercato interno dell’Ue, ma questo è uno scenario piuttosto netto e poco realistico, dal momento che anche i produttori di beni e servizi con sede in Ue cesserebbero di avere accesso automatico al mercato del Regno Unito», provocando un blocco che, di fatto, non gioverebbe a nessuno.

Una City in difficoltà
Un’attenzione particolare è però rivolta al mondo finanziario, che è il settore fra i più importanti dell’economia britannica. La City sembra per ora divisa tra chi….

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