Quando finisce un amore (professionale)

Gli avvocati d’affari, per loro natura e preparazione, dovrebbero favorire intese e ricomposizioni. Invece si separano assai volentieri. Certo, per dare corpo a nuove avventure, realizzare progetti personali o di gruppo. A dimostrazione della vitalità della professione e dei grandi spazi di crescita della consulenza e dell’assistenza legale. Ma è curioso che gli specialisti nel risolvere i contenziosi degli altri, non resistano alla tentazione di crearne di propri». Questa riflessione porta la firma di Ferruccio de Bortoli. E si trova nella prefazione che ha scritto per il libro 2006-2016 Avvocati d’Affari: segreti storie protagonisti.

 

 

Le sue parole mi sono tornate alla mente nel momento in cui in redazione eravamo alle prese con l’analisi del trend dei cambi di poltrona nel primo trimestre di quest’anno. Come potete leggere nell’articolo pubblicato in questo MAG, il 2018 è cominciato con un vero e proprio boom di lateral hire. In appena tre mesi, l’osservatorio di legalcommunity.it ha registrato una quantità di spostamenti pari a più del 60% del totale dei “cambi di maglia” avvenuti nel corso del 2017. Come mi capita spesso di dire, ogni singolo passaggio ha una storia propria. Generalizzare su quali siano le ragioni che spiegano questi movimenti di mercato è sempre piuttosto rischioso. Certo, a seconda dei periodi, ci sono dei fattori che pesano più di altri. Ma raramente si riesce a individuare una chiave di lettura che riesca a contenere tutte queste vicende.

Le fasi di estrema crescita, così come i momenti di profonda crisi sono solitamente quelli in cui le sedie diventano roventi. Da un lato perché chi ha voglia di avviare un nuovo progetto o sposare una nuova iniziativa viene incoraggiato dal clima di euforia circostante. Dall’altro, perché durante le fasi di recessione si riescono ad attrarre professionisti che normalmente starebbero bene lì dove si trovano ovvero si può approfittare delle correzioni di rotta che alcuni competitor decidono di adottare rinunciando a determinate risorse o al presidio di alcuni settori.

Quale che sia la spiegazione e al di là delle motivazioni personali, che quasi sempre sono poi quelle che fanno la differenza nel momento in cui si deve prendere una decisione di questo genere, sono sempre di più gli avvocati che sentono l’esigenza di fissare un minimo di regole di base per gestire il traffico dei partner.

Al di là della libertà di ciascuno di scegliere dove e con chi lavorare, ogni membro di un’associazione professionale nel momento in cui decide di farne parte assume dei diritti e dei doveri nei confronti dell’organizzazione. Ci sono studi che, consapevoli dell’importanza della stabilità della compagine associativa, hanno introdotto meccanismi di lock in con penali pesantissime a carico di chi decida di violare il patto di fedeltà siglato con lo studio. Ma si tratta ancora di un’eccezione. Nella maggior parte dei casi ci si affida ad accordi associativi, agli statuti e al buon senso delle parti coinvolte. È sufficiente? Non sempre.

Il fair play dovrebbe essere la regola. E francamente dovremmo augurarci tutti che possa bastare. Anche perché imbrigliare il mercato tra lacci e lacciuoli rischierebbe di fare più male che bene. Quando una storia professionale finisce è inutile incaponirsi cercando di vincolare il socio che ha deciso di andar via provando a trattenerlo oltre gli opportuni tempi tecnici. Allo stesso tempo, però, chi sceglie di essere parte di un’organizzazione deve anche digerire il fatto di assumere dei vincoli di base con la struttura e accettare l’idea che, almeno quelli, dovrà rispettarli.

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