VIDEO – La crisi è passata ma la questione tariffaria resta

Durante gli anni più bui della crisi post 2008 gli avvocati d’affari italiani hanno dovuto fare i conti con la contrazione dei mercati e la revisione (al ribasso) dei budget per le spese legali dei loro clienti. Tagliare è diventato il mantra dei committenti. Adeguarsi, l’imperativo dei consulenti.

Sono stati anni di rompicapo, segnati dalla nascita dell’alternative billing e di nuove filosofie relazionali («siamo partner dei nostri clienti») volte a giustificare, ribasso dopo ribasso, il deprezzamento di servizi che fino a pochi anni prima venivano venduti e acquistati a peso d’oro.

Adesso, però, la pressione tariffaria effetto della necessità di fronteggiare la recessione si è trasformata nella questione tariffaria, una condizione permanente, ovvero nel new normal delle relazioni tra cliente e avvocato, improntato alla costante, spasmodica e indifferenziata ricerca di servizi legali a prezzi da saldo. Al fenomeno non sfugge praticamente nessuna area di attività.

La crisi è passata. E il ridimensionamento delle tariffe si è cristallizzato.

L’Italia è il mercato che peggio di tutti ha gestito l’oscillazione delle tariffe durante la crisi e dopo. All’estero il valore dei servizi legali è tornato a crescere quasi subito e oggi è superiore rispetto a dieci anni fa.

In Italia, invece, la competizione esasperata e la continua immissione di nuovi player sul mercato hanno impedito il rimbalzo.

La vecchia avvocatura d’affari era una casta forte e temuta. Un’élite che non aveva bisogno di imporre il prezzo dei propri servigi. Lo faceva e basta. Quella attuale, invece, si muove in un mare diverso. La sua attività è considerata una commodity. Termine agghiacciante, che gli avvocati stessi hanno lasciato entrare nello story telling della propria funzione strategica e che adesso li vede abbozzare quando la disponibilità a remunerare la loro attività è filtrata da beauty contest e preventivi col tetto.

 

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In molti hanno gioito alla notizia dell’introduzione dell’equo compenso con l’ultima legge di bilancio. Uno strumento di difesa per le economie degli avvocati contro lo strapotere contrattuale dei grandi committenti pubblici e privati. Una norma che grazie a un meccanismo alessandrino trasforma i parametri in una sorta di nuovi minimi tariffari che però, non essendo effettivamente tali, hanno bisogno che la categoria faccia davvero sistema per farli valere.

Il problema è la derogabilità. E l’indisponibilità di tanti professionisti a mettere a rischio il proprio rapporto di collaborazione con una banca o una grande compagnia di assicurazione cliente in nome di un principio, per quanto esso sia considerato sacrosanto.

In molti segnalano che nonostante lo scadere delle vecchie convenzioni fissate al di sotto della soglia minima retributiva, siano davvero pochi gli studi legali che chiedono di rinegoziare gli accordi in virtù dell’affermato principio dell’equo compenso. Il motivo? Semplice, il cliente può comunque rispondere «no grazie» e trovare un altro “fornitore” disposto a replicare (se non addirittura a ribassare) la vecchia convenzione.

Di conseguenza, per ora, sembra che al di là della statuizione di un principio sacrosanto (quello per cui il lavoro di un professionista va retribuito dignitosamente) l’entrata in vigore della norma sull’equo compenso, contenuta nell’ultima legge di bilancio, non stia producendo alcun effetto.

Le tariffe minime, quelle abolite dalle lenzuolate bersaniane, erano inderogabili. L’equo compenso no. E quindi, se lo si vuole usare come strumento per affrontare la questione tariffaria c’è bisogno che a renderlo un principio ineludibile ci pensino gli avvocati stessi, facendo sistema e rifiutandosi di accettare remunerazioni al di sotto di quelle individuate dai parametri.

C’è bisogno, in buona sostanza, che gli avvocati decidano di affrontare una volta per tutte la questione tariffaria.

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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