#Andràtuttobene: da messaggio social a marchio d’impresa?

di Michele Loconsole* e Federica Santonocito*

Il rallentamento della vita sociale causato dall’esigenza di contrastare l’epidemia da coronavirus ha coinciso con l’inevitabile incremento della comunicazione attraverso i social network, inesauribile fonte di messaggi e slogan che oggigiorno sono in grado di raggiungere tutti e in tempi brevissimi.

Per l’occasione, dunque, si è assistito al nascere, anche su iniziativa delle stesse istituzioni, di esortazioni come “#iorestoacasa”, “#celafaremo” o “#andràtuttobene”, slogan e hashtag che stanno accompagnando la vita di milioni di italiani nei difficili giorni dell’isolamento.

Se da un lato si moltiplicano quindi le iniziative della piazza virtuale, che ha sostituito (perlomeno temporaneamente) quella reale, dall’altro lato è inevitabile che i meccanismi di funzionamento della comunicazione facciano convergere su questi segni – più o meno di fantasia – pensieri, immagini e in generale gli svariati contenuti generati da quello sconfinato mondo che è oggi la Rete internet.

L’ampio successo che questi slogan stanno avendo sul web, nella speranza che possano contribuire alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’importanza del rispetto delle prescrizioni governative, mette indubbiamente in luce l’enorme potenzialità della Rete quale strumento di auto-generazione di messaggi volti alla collazione di utenti.

Allargando il campo, e volgendo lo sguardo agli aspetti attinenti la proprietà industriale, può sorgere spontanea una domanda: è consentita l’appropriazione esclusiva di contenuti auto-generati in contesti come questo, per esempio tramite la registrazione di questi hashtag/slogan come marchio? Domanda, quest’ultima, a ben guardare neppure così originale, se si pensa che nel 2015 gli Uffici europei per la proprietà intellettuale si erano misurati con il tentativo di numerosi soggetti privati volto ad appropriarsi dello slogan “Je Suis Charlie”, emblema della reazione social-popolare dopo i tragici attentati di Parigi del 2015.

Tentativo allora unanimemente respinto, come le relative domande di registrazione, sulla base delle normative sui marchi anche oggi applicabili.

Ciò posto, per tentare di rispondere a questo interrogativo occorre fare una breve ricognizione sulla disciplina legislativa di matrice nazionale ed europea, che regola la registrazione dei segni distintivi.

Nell’attuale contesto normativo, un segno, per essere registrato e diventare un marchio, deve possedere due requisiti: deve essere nuovo, e deve essere altresì dotato di capacità distintiva (ai sensi degli art. 12 e 13 del Codice della proprietà industriale e delle corrispondenti norme del Reg. UE 1001/2017 sul marchio dell’Unione europea).

Tentando di semplificare una disciplina per il vero non così semplice come si tende a credere, si può affermare che un segno è nuovo se non è identico o simile ad un altro già registrato o usato da terzi per prodotti o servizi identici o affini, e se da tale similitudine derivi confusione sull’origine di questi ultimi. Nel caso di segni dotati di rinomanza, la tutela si “allarga” anche aldilà del rischio di confusione per il pubblico, andandone a salvaguardare anche il c.d. selling power.

Oltre a ciò, come detto, la legge impone che un segno – per divenire marchio – sia dotato di capacità distintiva, sia cioè in grado di essere percepito dal pubblico come effettiva indicazione di provenienza del prodotto/servizio contrassegnato dal soggetto titolare della registrazione. Deve, in altri termini, fare in modo che il pubblico a cui si rivolge associ quel segno al relativo prodotto o produttore.

Nel caso degli hashtag/slogan che ci accompagnano in questi giorni – che, a conti fatti, paiono essere delle semplici esortazioni – il maggiore ostacolo alla loro appropriazione da parte di un singolo soggetto sembra essere costituito proprio dalla loro (massiccia) diffusione, che ne ha fatto un “patrimonio comune” non solo della Rete, ma di ciascuno di noi.

Pertanto, sembrerebbe ad oggi difficile rinvenire in questi slogan il requisito della capacità distintiva richiesto dalla normativa quale condizione di accesso alla tutela di un segno come marchio o alla sua registrazione. Né, d’altra parte, la giurisprudenza (attuale) sembra attribuire tale caratteristica al solo fatto che questi slogan siano anche hashtag, cioè parole precedute dall’espressione “#” e di uso sui social (v. per esempio Tribunale UE, 5 settembre 2019, #BestDeal, in causa T-753/18).

Del resto, l’“apolidia” di questi messaggi è testimoniata anche dall’ampio utilizzo che ne viene fatto da parte della comunicazione istituzionale, allo scopo di battezzare, non ufficialmente, le normative che si susseguono in questi giorni.

In un tale contesto, dunque, la carenza di capacità distintiva rende ragionevole pensare che gli slogan “#andràtuttobene” o “#Iorestoacasa” o “#andràtuttobene” rimarranno al più il “marchio” social-comunicativo di questo difficile periodo.

*Studio Legale Avvocati Associati Franzosi Dal Negro Setti

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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