VIGLIANO, ASHURST: SI ALLE SOCIETA’ DI CAPITALI
Lo scorso 29 maggio Ashurst ha annunciato l?ingresso di Robert Gillespie e David Turner in qualità di membri indipendenti del consiglio di amministrazione dello studio. Si tratta del primo ingresso nel Board di due persone esterne allo studio e, più in generale, di una delle prime nomine del genere nel panorama degli studi legali internazionali. Robert Gillespie, che in precedenza ricopriva la carica di Direttore Generale del Panel on Takeovers and Mergers della City, è entrato a far parte del Board di Ashurst LLP con effetto Immediato. David Turner, Chairman della Commonwealth Bank of Australia, è entrato nel Board di Ashurst Australia a decorrere dal 1 giugno 2013. Abbiamo chiesto a Franco Vigliano (in foto), Head of Italy proprio dello studio Ashurst, e uno degli avvocati più autorevoli del mercato legale italiano di riflettere con noi su alcuni temi riguardanti i mondo legale prendendo spunto proprio dalle nomine di Gillespie e Turner.
Avvocato Vigliano, sarà mai possibile secondo lei nominare in Italia nel board di studi italiani dei non avvocati?
In principio non sembrano esserci impedimenti. In pratica, nella situazione attuale, lo vedo difficile per due ragioni:la prima è che un membro del Board o di un equivalente organo di governo deve essere remunerato e mi sembra che, soprattutto di questi tempi, gli avvocati siano inclini a limitare le spese e la seconda è che culturalmente, anche i maggiori studi italiani fanno fatica ad emanciparsi dal fondatore o dai soci che li hanno dominati per tanti anni. La struttura di governo dello studio italiano ha prevalentemente una funzione di controllo, anziché seguire una logica di organizzazione e sviluppo, come quella degli studi globali/internazionali.
Società di capitali si e società di capitali no. Lei da che parte sta nel dibattito?
Società di capitali si, si, si. Questo non solamente per limitare il profilo della responsabilità, garantendo allo stesso tempo ai clienti la trasparenza sulla capacità patrimoniale e sulle risorse dello studio, ma anche per consentire un'adeguata capitalizzazione dello studio, senza dover ricorrere all'indebitamento, con il rischio di effetti disastrosi come Dewey Leboeuf, per garantire un sistema equilibrato di remunerazione degli avvocati, attraverso la combinazione di dividendi, basati sul possesso delle azioni, e di salario, basato sul rendimento, per creare una forma di pensione per gli avvocati, attraverso il possesso delle azioni e per consentire l'accesso degli investitori ad un settore di attività che, per quanto basato essenzialmente sul valore e la capacità delle persone, ha un ragionevole tasso di prevedibilità dei risultati.
Da tempo sosteniamo che gli studi italiani siano troppo piccoli per essere internazionali e forse troppo grandi per la sola Italia. Le società di capitali potrebbero dare supporto in eventuali processi di internazionalizzazione?
Si e no. Si in teoria, perché con la dotazione di risorse finanziarie e con un management che abbia una visione globale, gli studi italiani potrebbero competere su alcuni mercati internazionali, soprattutto nei paesi emergenti. No, perché manca un'adeguata cultura e gli avvocati italiani non hanno in genere la preparazione manageriale che consenta loro questo balzo di qualità, né sono disponibili ad abdicare la funzione di comando a manager professionali.
Vede pronti i grandi studi italiani a fronteggiare le sfide dei prossimi 5 anni?
Per fortuna, la nostra professione si adatta naturalmente all'andamento del mercato. Negli anni di espansione, fiorisce l'M&A e la finanza dell'investimeno e del risparmio. Negli anni di crisi, bisogna occuparsi di ristrutturazioni, fallimenti e recupero crediti. In teoria, c'è sempre lavoro per gli avvocati. In realtà, questo richiede flessibilità ed un continuo aggiornamento. Gli studi italiani sono ben equipaggiati sotto il primo profilo, perché gli avvocati sono meno specializzati e più generalisti. In un mondo globale e con clienti divenuti globali o forzati a competere in un mercato globale, però, gli studi italiani non hanno sufficienti risorse ed accesso al know-how necessari per garantire quel livello di aggiornamento che consenta loro di fare concorrenza agli studi internazionali.