Un posto per l’avvocatura nella stagione delle riforme

di nicola di molfetta

La prima reazione è stata un “di già?” di assoluto stupore. Tra i numerosi cantieri legislativi in corso, a quanto pare, ve n’è uno che riguarda anche l’avvocatura. E considerato che l’ultima riforma forense, quella del 2012, è arrivata ad “appena” 80 anni di distanza dal precedente intervento normativo sulla professione, la suddetta reazione potrebbe apparire più che giustificata.

Tuttavia, a ben guardare, la legge 247 è nata vecchia. Ha ratificato molti dei cambiamenti che nella categoria erano già avvenuti e poco ha stabilito in funzione del governo del futuro. L’avvocatura, dodici anni fa, era all’inizio di una nuova stagione evolutiva. Aveva appena metabolizzato l’arrivo delle law firm internazionali, cominciava a fare i conti con la possibilità di essere organizzata anche in forma societaria, accarezzava l’idea di potere esprimere la propria competenza in contesti in house e cercava di trovare una via sostenibile alla comunicazione e al tema delle specializzazioni. Sono passati dodici anni, come dicevamo, e molti dei nodi affrontati dal testo dell’epoca non sono ancora stati completamente sciolti. Per di più, a quelli, se ne sono aggiunti altri di grandissima rilevanza. Il primo, sicuramente, è rappresentato dalla questione tecnologica (leggi intelligenza artificiale generativa), a cui segue ed è strettamente collegato il tema della gestione dei professionisti.

Qualunque legge forense, fino a oggi, ha considerato la figura dell’avvocato come quella di un professionista indipendente. Attenzione a questo aggettivo e alla sua possibile interpretazione in senso etico e deontologico, perché qui sta l’origine di un grande fraintendimento. Infatti, posto che ogni legale deve essere eticamente e deontologicamente indipendente, non possiamo immaginare che tutti i 240mila avvocati italiani siano anche indipendenti in senso organizzativo e operativo. Indipendente non può più essere considerato sinonimo di individuale. La legge, fino a oggi, ha tenuto in considerazione e si è rivolta a una popolazione forense fatta di presunti sole practitioner. Invece, il mercato sarà sempre più popolato da strutture organizzate (si veda quanto abbiamo riportato sul precedente numero di MAG a proposito dell’edizione 2024 del Rapporto sull’Avvocatura curato da Cassa Forense e Censis) costituite da soci e avvocati-collaboratori: avvocati che hanno un diretto rapporto con i clienti e avvocati che lavorano per altri avvocati ovvero per lo studio legale.

C’è poi la grande questione della comunicazione che aspetta ancora di essere sdoganata con regole chiare, coerenti e valide per tutti. Così come c’è la questione della liberalizzazione delle forme societarie in cui poter organizzare e strutturare le differenti tipologie di operatori che si occupano dei servizi legali aprendo le porte a soci di capitale e partner interprofessionali.

Infine, il salto culturale più grande, quello più rischioso, ma allo stesso tempo più necessario: considerare l’avvocatura non più solo legata alla sua funzione nel Processo ovvero nel sistema giudiziario. Questo è un argomento che sosteniamo da anni. Ed è, a nostro spassionato parere, il tema che ha maggiormente penalizzato la categoria negli anni in cui le crisi e i cambiamenti sociali hanno preteso una rivisitazione del suo ruolo senza ottenere risposta. Qualcuno punta il dito oltre Manica e ritiene che una “separazione delle carriere” come quella tra sollicitor e barrister potrebbe essere la soluzione. Forse. O forse c’è una via italiana su cui è importante lavorare con consapevolezza e competenza senza cercare scorciatoie. Di sicuro, non si può più pensare a un’avvocatura monolitica. L’abbiamo ampiamente discusso in Quali Avvocati?, cento anni dopo l’invettiva contro i Troppi Avvocati! di Calamandrei. Speriamo di non dovere aspettare altri cento anni per trovarci finalmente d’accordo anche su questo.

QUESTO ARTICOLO APRE L’ULTIMO NUMERO DI MAG. CLICCA QUI E ASSICURATI LA TUA COPIA

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

SHARE