Uffici, spazio, tempo: il malinteso dietro lo stop di Amazon allo smart working
di giuseppe salemme
“Forse anche un’ottima idea, se mal applicata, può avere effetti disastrosi. Che sia successo esattamente questo con il lavoro da remoto?” ci chiedevamo nell’articolo di apertura di Edifici bellissimi, il primo numero della collana MAG Monografie, uscito lo scorso febbraio e disponibile nella pagina dedicata del nostro sito.
È una domanda che vale ancora la pena farsi, all’indomani della lettera con cui il ceo di Amazon Andy Jassy ha comunicato al milione e mezzo di lavoratori dell’azienda la fine della politica dei “due giorni di lavoro da remoto a settimana”. Lavorare lontano dall’ufficio rimarrà possibile per particolari esigenze personali o lavorative, ma per il resto si tratta di un rollback completo delle policy post-pandemiche. I motivi: in ufficio è più efficace apprendere, comunicare, collaborare e far circolare le idee.
Molti si chiedono se ci stiamo avvicinando alla “fine dello smart working“. Ma sono domande viziate da una concezione errata di cosa sia lo smart working. Se è vero che le proteste dei dipendenti Amazon contro la fine del lavoro da remoto, secondo il New York Times, “hanno unito gli impiegati da 19 dollari l’ora e quelli da 80mila dollari l’anno”, fanno anche ben capire come esso sia concepito come una “grazia” dell’azienda verso i dipendenti. Un privilegio da concedere a chi se lo merita; un benefit alternativo all’auto aziendale; o quantomeno un contentino per “tenere buoni” i lavoratori. Un nice to have, ma nulla che impatti in maniera rilevante l’organizzazione del lavoro.
Ma lo smart working dovrebbe essere uno strumento di produttività. Alla base della sua definizione “c’è uno scambio: al lavoratore viene data flessibilità su spazi, orari e strumenti di lavoro; e, in cambio, questi accetta una maggiore responsabilizzazione sui risultati che ottiene“, scrivevamo nell’articolo di cui sopra. Ma quante organizzazioni possono realmente dire di aver ragionato secondo questo schema nell’implementare le loro policy? Di aver cambiato il modo in cui la prestazione lavorativa viene concepita e valutata, o anche solo formato i manager nella gestione del lavoro diffuso? Molto poche, dicono i dati. Le ragioni sono diverse, e sono anche comprensibili (le approfondiamo nell’articolo).
Ma allora serve a poco piangere per la fine dell’era dello smart, perché non è mai iniziata (e magari nemmeno ci sarebbe piaciuta). Quella che molti di noi hanno vissuto è una breve età di mezzo, di un lavoro solo “remotizzato“, ma non adattato nel profondo alle nuove modalità. Ci siamo stati scaraventati a sorpresa; e abbiamo provato a trovarci delle opportunità: su tutte, quella del risparmio economico, che faceva gola sia a lavoratori che a datori di lavoro, o quella di avere un miglior work-life balance. Ma spesso non è andata così: il risparmio è stato surclassato dall’impreparazione a far fronte alle nuove dinamiche; l’equilibrio tra vita e lavoro dalla definitiva dissoluzione dei confini tra i due.
Se c’è una lezione da imparare da tutto ciò, è che le soluzioni piovute dal cielo quasi sempre non sono vere soluzioni. Quelle vere richiedono competenze, pianificazione, investimenti. O, più in concreto: capi interessati a far esprimere al massimo i loro team, più che a fare micromanaging del loro tempo; processi aziendali adatti alle nuove modalità di lavoro e non vincolati dal “si è sempre fatto così”; o anche soltanto uffici in cui si voglia andare perché lì si lavora bene, e non perché si è obbligati.
Scarica e leggi “Edifici bellissimi“, rivista della collana MAG Monografie.
