Tariffe, studi internazionali e il rischio di cortocircuito
di nicola di molfetta
L’attività degli studi internazionali in Italia ha sempre dovuto fare i conti con le peculiarità del nostro Paese sul piano culturale, economico e sociale. Il peggior errore commesso in passato da quasi tutte le insegne straniere calate a “conquistare” la Penisola è stato quello di pensare che a Londra o a Roma, a New York o a Milano, il business di uno studio legale, alla fin fine, potesse seguire le stesse regole, le stesse logiche e le stesse dinamiche.
Sbagliato. E questa è una lezione che tutti gli studi di matrice straniera hanno mandato a memoria nel corso degli ultimi sette anni, rivedendo e ripensando in vario modo la loro presenza in Italia, cercando e (in molti casi) trovando un proprio centro di gravità più o meno permanente che rendesse possibile la presenza del loro brand su una piazza che, nel bene o nel male, resta comunque tra le prime 10 economie del mondo.
Una questione, tuttavia, resta ancora aperta nella gestione delle relazioni tra gli avamposti italici e i quartier generali delle law firm di matrice anglosassone. Si tratta della definizione del costo delle prestazioni dei soci di stanza negli uffici di Milano o Roma.
L’esistenza di un delta tra il valore delle ore fatturabili in Italia e quello delle billable hour in piazze più avanzate e ricche di finanza era un dato che, pur tra molti mal di pancia, era stato metabolizzato. Del resto, l’espansione di questi studi in aree come l’est Europa, l’Asia o l’Africa, aveva reso il relativismo tariffario una prassi necessaria per poter riuscire a trovare cittadinanza in mercati che altrimenti avrebbero messo rapidamente alla porta i conquistatori arrivati dall’estero.
La lunga crisi di questi anni, però, ha ampliato questo divario. In particolare perché mentre a Londra l’abbassamento delle pretese tariffarie ha rappresentato una misura di emergenza per affrontare assieme al resto del mercato la congiuntura problematica che si era presentata, in Italia è diventata un’arma per battere la concorrenza in un gioco al ribasso che si è rivelato un boomerang (si veda l’editoriale alla newsletter n.30 di legalcommunity.it).
Numeri alla mano. Nel 2008 le hourly rates di uno studio magic circle a Londra, per i partner, erano arrivate a oscillare tra un minimo di 600 e un massimo si 750 sterline. Quelle di un socio di un grande studio americano erano arrivate a valere tra i 425 e i 550 pound. Nel 2009, per entrambe le categorie di professionisti si ebbe un calo delle pretese economiche. Così, un’ora di lavoro di un socio di uno dei cinque più blasonati studi inglesi arrivò a costare 450 sterline, mentre i colleghi americani si facevano bastare addirittura 400 sterline. Oggi, però, lo scenario è decisamente cambiato. Dal 2010 in poi, infatti, le hourly rates nella City, così come Oltreoceano, hanno ricominciato a salire. E oggi la situazione si presenta come segue: un’ora di lavoro di un socio magic circle può costare mediamente da 775 a 850 sterline e quella di un partner di una insegna a stelle e strisce tra 700 e 900.
Al di là del valore puntuale, che è ovviamente legato alle caratteristiche del mercato locale, il dato su cui bisogna riflettere è la crescita del valore delle hourly rates che non sono solo usate come strumento di misurazione del prezzo da dare a un servizio, ma sono, in molti casi, ancora impiegate come unità di misura del tassametro legale. E su questo è importante riflettere per provare a capire come mai in Italia non sia successa la stessa cosa. Qui il costo orario dell’assistenza legale, dalle best law firm in giù, ha continuato a scendere e oggi, ai livelli più alti, non solo non viene quasi mai applicato, ma non arriva mediamente nemmeno ai 400 euro l’ora. Sulla carta, sono solo i “brand partner” ovvero i soci che da soli valgono buona parte dell’avviamento di uno studio che possono teoricamente pretendere cifre nell’intorno degli 800 euro l’ora per il proprio lavoro.
Così, mentre dopo il 2009 le tariffe in Inghilterra hanno ripreso a crescere, in Italia hanno continuato a calare o hanno cominciato a ristagnare, restando imbrigliate nell’incapacità degli studi legali di gestire la leva tariffaria. La gara al massimo ribasso (oggi, il costo del lavoro giornaliero di un avvocato nell’ambito di un contratto di consulenza continuativa è sceso a meno di 30 euro) che ha dettato legge nella competizione tra legali a qualsiasi livello, ha creato un nuovo habitat in cui per poter esistere o resistere bisogna riuscire a rendere economicamente sostenibile e redditizia una struttura che mediamente non potrà (se non in rarissimi casi) pretendere mai più di 400 euro l’ora per il lavoro di uno dei propri soci. E questo, sempre che i clienti accettino di pagarle quelle ore e non pretendano che il servizio venga fornito a una cifra complessiva predeterminata e non rinegoziabile.
Questo calo delle tariffe, dunque, ha anche ampliato la distanza tra i soci italiani e quelli delle sedi estere di alcuni studi internazionali che, di nuovo come dieci anni o quindici anni fa, faticano a capire come mai in Italia i propri clienti possano usufruire di billable hour da hard-discount mentre a Londra o negli Usa debbano pagare parcelle più salate. La mediazione culturale, stavolta, si sta rivelando più difficile che in passato. Con quali conseguenze, lo scopriremo nei prossimi mesi.
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