Studi Legali, perché la leadership si moltiplica

di nicola di molfetta

Non sono rari i casi in cui il cambio di leadership al vertice di uno studio legale si traduce in una moltiplicazione delle figure chiamate a esercitare le funzioni di guida e indirizzo. La questione non è solo curiosa. Ci dice molto della peculiarità di queste organizzazioni in cui il fattore umano ha un peso specifico di molto superiore rispetto a quello che si può riscontrare in aziende tradizionali, dove la fungibilità del management è acquisita.

In particolare, quando la vicenda di uno studio giunge al suo primo giro di boa, raramente si assiste a un passaggio lineare dal leader carismatico a un nuovo singolo managing partner. Più spesso, il fondatore viene “sostituito” – se così si può dire – da un comitato di gestione, un duo, un trio, talvolta un quartetto e abbiamo visto anche quintetti, di soci referenti. In buona sostanza, dal vertice assoluto, si passa a forme di leadership collegiale. Ma perché accade questo?  

Chi fonda uno studio legale porta con sé una combinazione di visione strategica, carisma personale, capacità di attrarre clienti e talento nella gestione interna. Una figura così poliedrica, che è stata per anni presente e centrale in ogni snodo della vita dello studio, è difficilmente replicabile da un singolo successore. L’autorevolezza non si trasmette per statuto. E non si può rimpiazzarla con forme più o meno accentuate di autoritarismo che male si conciliano con il buon andamento di strutture che fondano la loro capacità di crescere e prosperare sui pilastri del consenso e dell’armonia.

C’è anche una dimensione culturale di cui si deve tener conto: gli studi legali non sono aziende tradizionali. Sono partnership basate su equilibri delicati, su dinamiche di consenso e una governance partecipata. Una leadership distribuita consente di preservare questo tessuto di relazioni interne. Il modello “fondatore-centrico” è spesso il risultato di un’eccezione irripetibile più che di una regola strutturale.

La leadership collegiale, quindi, permette di distribuire la responsabilità della continuità gestionale e relazionale su più figure, riducendo il rischio di fratture.

In molti casi, poi, la scelta di un collegio di avvocati risponde a una logica di compromesso: diverse anime dello studio vengono rappresentate e le diverse practice group hanno voce in capitolo. È una forma di equilibrio, spesso pensata come fase di transizione, ma che tende a protrarsi nel tempo proprio perché offre stabilità e rassicura le varie componenti interne.

Ma il compito della continuità non si esaurisce al primo passaggio. Questo va tenuto bene a mente. La sfida, in prospettiva, è trasformare i modelli collegiali in strutture di leadership sostenibili nel lungo periodo. L’istituzionalizzazione si concilia con la cultura della leadership diffusa, ma deve essere anche capace di evolvere.

Se guardiamo ai grandi studi internazionali, la differenza è evidente: lì il leader di studio è, per definizione, una figura istituzionale, eletta per un mandato preciso, con obiettivi misurabili e con un percorso di legittimazione formale all’interno della partnership. Il rischio, per gli studi italiani, è di rimanere ancorati a un modello transitorio che, nel lungo periodo, può creare incertezza sia verso l’interno che verso il mercato. La gestione di uno studio legale deve sicuramente tenere conto del one-man-risk, ma allo stesso tempo non può sottovalutare il disorientamento cagionato dalla moltiplicazione delle teste e dei parlamenti al vertice della struttura.

La sfida per la prossima generazione di studi legali italiani sarà proprio questa: passare dalla leadership “emergenziale” e collegiale di breve periodo a una leadership strutturata, pianificata e realmente sostenibile. Mantenendo quella flessibilità che ha sempre caratterizzato il mercato italiano, ma acquisendo anche una effettiva maturità organizzativa.

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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