Studi legali, la Cina è lontana?
di giuseppe salemme
L’estate appena trascorsa è stata particolarmente movimentata sul fronte orientale del mercato legale. Le notizie, nell’ordine: il colosso legale cinese King & Wood Mallesons (Kwm) ha annunciato l’abbandono dell’Europa per tornare a concentrarsi sul mercato domestico, arretrando dal percorso di internazionalizzazione avviato dieci anni fa (a raccontarlo all’epoca, per la prima volta, c’era anche MAG). Dentons si è separato da Dacheng, firm di Pechino il cui nome dal 2015 figurava addirittura nel logo dello studio; e Latham & Watkins ha chiuso gli uffici di Shanghai, a vent’anni dalla loro apertura. Come se non bastasse, firm come Linklaters, Ropes & Gray e Clifford Chance hanno tutte ridotto l’organico nelle sedi cinesi, o fatto annunci in questo senso.
Tutto ciò è avvenuto nel primo vero momento di rallentamento dell’economia cinese dalla fine degli anni ‘70. Il settore immobiliare è stato il primo a pagare il prezzo di mezzo secolo di crescita demografica sovvenzionata dallo stato (chiedere a Evergrande). La finanza e il sistema bancario sono venuti subito dopo; e la disoccupazione giovanile ha toccato livelli preoccupanti per uno stato socialista. Per di più, il piano elaborato dal governo per uscire dalla crisi non è di facile attuazione: richiederà una profonda trasformazione economica, che vada nel senso di rendere la Repubblica popolare cinese sempre più avanzata, tecnologica e autonoma. Ma anche sempre più chiusa su sé stessa: proprio la rigidità delle nuove norme cinesi in materia di privacy è stata citata da Dentons tra le motivazioni della decisione di interrompere la partnership con Decheng; mentre Linklaters ha giustificato la riduzione del team in Cina parlando di una “prolungata recessione”.
Se al quadro aggiungiamo le crescenti tensioni geopolitiche con il blocco occidentale a guida Usa, tra guerra dei dazi e conflitto russo-ucraino, c’è spazio per chiedersi: stiamo forse vivendo l’inizio di un grande distacco tra il mondo europeo/anglossassone e quello dell’Estremo Oriente? E i rispettivi mercati legali potrebbero seguire la stessa sorte?
Gli indizi non diventano mai prove, e nessuno lo sa meglio degli avvocati. Ma chiedersi cosa ne sarà del mercato cinese, un paio di decenni fa considerato l’El Dorado degli studi internazionali e che tuttora vale complessivamente circa 24 miliardi di dollari, è più che lecito. Proviamo allora a rispondere a questa domanda.
DUE MONDI
Capire “come va” il mercato legale cinese non è facile. Anche perché in primis bisogna distinguere tra il mercato degli studi locali e quello degli studi stranieri. Le firm cinesi tendono ad assumere la forma di colossi multidisciplinari da migliaia di avvocati, ma sono mediamente molto meno profittevoli degli studi occidentali. Secondo Law.com, inoltre, più dell’85% dei primi 45 studi legali cinesi ha fatto registrare un “calo significativo” di fatturato lo scorso anno.
Meno critica sembra essere la situazione per gli studi stranieri attivi in Cina, le cui clientele (spesso straniere a loro volta) sono meno interessate dalle contingenze negative del paese. Tutti gli studi sentiti da MAG, al netto del calo dell’attività dovuto al lungo e severo periodo di lockdown, hanno parlato di un giro d’affari cinese stabile o in aumento.
Gli studi italiani, poi, continuano a fare leva con successo sul fattore made in Italy: settori come fashion, food & beverage, meccanica e meccatronica rimangono bacini di mandati sicuri anche e soprattutto in territorio cinese. E nessuno sembra intenzionato per ora a modificare l’approccio verso questo mercato.
«Finché ci saranno aziende italiane nostre clienti in Cina, noi saremo lì» sintetizza Massimo Di Terlizzi, co-managing partner di Pirola Pennuto Zei & associati, che ha uffici a Pechino, Hong Kong e Shanghai, dove è operativo il socio Antimo Cappuccio. È presente a Shanghai e Hong Kong anche Gianni & Origoni, con il partner Davide De Rosa come referente. Mentre Pechino è la sede scelta da Chiomenti, presidiata dalla partner Sara Marchetta. La presa sulla Cina di Grimaldi Alliance passa invece dalla partnership con lo studio Yingke, che con quasi 15mila avvocati è il più grande del paese (e del mondo). «Sul rallentamento cinese siamo in controtendenza – spiega il managing partner Francesco Sciaudone – anzi, puntiamo ad accrescere ancora la nostra collaborazione in tutto il mondo, sfruttando sempre di più e meglio questo fattore dimensionale».
SCELTE DI CAMPO
Ma se la diversificazione della clientela e il respiro internazionale aiutano a far fronte alle contingenze economiche negative, come vanno interpretati i dietrofront di studi come Kwm e Dentons?
Quest’ultima insegna, ad esempio, ha indicato nei nuovi obblighi che il governo cinese impone agli studi locali in fatto di cybersecurity e protezione dei dati la ragione della separazione da Dacheng. Il riferimento sarebbe alla Data security law e alla Personal information protection law emanate da Pechino due anni fa. Ma nessun altro studio per ora sembra nutrire le stesse preoccupazioni in merito. «Esportare i dati è complesso, ma è possibile – sostiene Hermes Pazzaglini, partner di Advant Nctm di base a Shanghai. – Peraltro, l’intensificazione dell’attività regolatoria del governo cinese è comunque ispirata al modello europeo: e nel caso della privacy, proprio al Gdpr». Per Laura Orlando, global co-head of Ip di Herbert Smith Freehills (Hsf) e managing partner dello studio in Italia, i cambi di rotta registrati quest’estate sono organizzativi più che strategici: «Difficilmente decisioni come queste sono dettate da condizioni politiche o economiche: dipendono più da come lo studio è strutturato internamente». Non sarebbero quindi scelte ideologiche o propiziatorie di un’uscita da quel mercato: «Le grandi strutture devono ne…
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