Studi legali, il modello tradizionale non esiste… più

di nicola di molfetta

L’editoriale allo scorso numero di MAG ha suscitato (per fortuna) molto dibattito. Per chi se lo fosse perso e fosse così pigro da non volerlo recuperare scaricando il numero 190 di questa rivista digitale (qui il link) riporto di seguito il concetto finale: I nuovi avvocati sanno che il mercato non sarà più degli studi individuali e che negli studi associati non tutti potranno essere soci. Allora hanno bisogno di inserirsi in strutture dove oltre alla massima qualità professionale sia di casa anche un modello gestionale competitivo, una governance trasparente, una capacità di esecuzione tecnologicamente supportata e dove l’attenzione alle persone sia alta almeno quanto quella ai profitti.

Questa frase ha suscitato un paio di commenti che secondo me meritano risposta perché, entrambi, toccano dei punti fondamentali del dibattito attuale sulla professione forense e la forma-studio legale. Essi, infatti, sollevano due delle questioni che maggiormente alimentano le resistenze verso una considerazione serena e obiettiva del processo di cambiamento che sta attraversando il settore ormai da anni.

Il primo commento è del mio partner in crime nella serie podcast Complex L’avvocatura oltre la superficie (lo potete ascoltare qui), Paolo Lanciani, che sente l’amaro in bocca quando dico che negli studi associati non tutti possono diventare soci. Ne abbiamo parlato spesso anche in puntata. Purtroppo, però, questo è un fatto. E credere, o far credere, a chi ci legge che sia vero il contrario, è a mio parere sbagliato. A dirci che le cose stanno così sono i numeri. Fatta 100 la popolazione di professionisti nei primi 50 studi legali attivi in Italia per fatturato, vediamo che meno del 20% è costituita da partner (senza distinguere tra equity e non). Il fatto che sia giusto che un giovane avvocato aspiri all’equity di uno studio non significa che riuscirà ad arrivarci (per mille le ragioni). E questo non si può contestare. Credo, invece, che quell’amaro in bocca sia figlio di una visione arcaica della professione: quella dell’ognun per sé… La stessa che, intendiamoci, ha dettato i principi regolatori della professione al Legislatore che, infatti, non considera (ancora oggi) che negli studi associati lavorino oltre ai soci anche i collaboratori. I quali, in moltissimi casi, rimangono tali (seppure con livelli di seniority diversi) a vita. E non per questo sono considerabili “meno professionisti” degli altri loro colleghi (questo sì che lascia l’amaro in bocca). Parliamo, infatti, di professionisti che hanno fatto proprio il progetto professionale dell’organizzazione in cui sono inseriti e lì hanno trovato il loro punto di equilibrio. Il senso della loro missione professionale. Uscendo (finalmente) dalla grammatica individualistica del passato, che oggi, invece, è una delle principali cause del fenomeno della proletarizzazione della categoria. E qui veniamo al secondo commento. In questo caso, a firmarlo è un avvocato che ho raccontato spesso su queste pagine (e che torna alla ribalta anche in questo numero di MAG): Giulio Graziani, ceo di Freebly, società tra avvocati benefit che funziona come piattaforma di servizi che mette in rete professionisti che hanno scelto di uscire dalle (più o meno grandi) organizzazioni associate e si sono messi in proprio contando però su una serie di sinergie attivabili grazie all’adesione al network.
Graziani si chiede, mi chiede, se «il modello tradizionale di studio rappresenti la sicurezza a discapito dell’assecondare un’esigenza di libertà». Detto altrimenti, Graziani ci ricorda che la vita negli studi associati può essere molto dura e che, nonostante gli sforzi che molte realtà fanno per promuovere il work-life balance e consentire ai loro professionisti la massima flessibilità e indipendenza, in tanti casi, la condizione in cui molti si vengono a trovare è vessata dalla necessità di centrare obiettivi di budget, assecondare i desiderata dei colleghi gerarchicamente sovraordinati, assoggettare la propria autonomia ai diktat dei clienti. La cosa che mi stupisce è che Graziani consideri questo, il modello tradizionale di studio legale. In realtà, a mio parere, oggi non esiste più un modello organizzativo che possa dirsi tradizionale. In particolare (e Graziani ne è la prova vivente) non esiste più un unico modello di studio legale organizzato.
Non lo sono gli studi associati, visto che nella loro dimensione para-aziendale sono qualcosa di molto diverso dal concetto di studio legale del passato in cui si riproduceva in vitro un microcosmo di stampo feudale se non addirittura monarchico assoluto. Non lo sono le società tra avvocati che possono dare vita a società per azioni così come a cooperative e che possono, a loro volta dar forma a iniziative di vario stampo e impostazione (come la stessa Freebly).

L’unica cosa che accomuna le numerosissime e diversissime interpretazioni della forma studio, oggigiorno, è rappresentata da un dato di fondo: nessuno (professionalmente) si può più salvare da solo. Un avvocato contemporaneo ha bisogno di una rete di competenze con cui collaborare per essere competitivo (la forma giuridica di questa collaborazione è un dettaglio) e di una rete di protezione per non restare indifeso di fronte all’aggressione di un mercato che chiede, efficienza, efficacia, internazionalizzazione, visibilità e credibilità.
Starà poi al professionista scegliere la dimensione ideale in cui inserirsi per esprimere al meglio le proprie potenzialità. E affermare, così, la sua identità d’avvocato.

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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