Sorridi, sei un avvocato d’affari, ma…
Ogni due anni, con MAG, cerchiamo di fare il punto sull’andamento delle retribuzioni negli studi legali d’affari attivi in Italia. Considerato che la rilevazione di quest’anno si sarebbe concentrata sui dati del 2020 ci siamo chiesti se fosse il caso di procedere. Il 2020, lo abbiamo scritto e letto in tutte le salse, è stato un anno particolare. Unico. Tragico.
Detto questo, proprio la peculiarità dell’esercizio appena trascorso ci ha convinto ad andare avanti.
Alla fine, come leggerete in queste pagine, le retribuzioni dei collaboratori degli studi appartenenti alla categoria delle associazioni professionali d’affari, non hanno subito particolari scossoni. Sono scesi i compensi dei praticanti e quelli dei professionisti più senior, mentre quelli delle fasce intermedie sono cresciuti.
In un anno in cui un avvocato su due ha dovuto chiedere i 600 euro previsti dal Cura Italia, i professionisti appartenenti a questa particolare sottocategoria dell’universo forense non possono che sentirsi fortunati.
Detto questo, però, mai come quest’anno, una riflessione sulla condizione dei collaboratori degli studi legali associati si impone. Poiché la protezione di cui gran parte di essi ha goduto nel corso di questi mesi è stata essenzialmente frutto di una scelta di gestione.
Il trend predominante è stato “non tagliare” e alla fine, chi ha potuto, ha evitato di farlo sia perché la speranza che il rimbalzo dopo il tonfo dell’attività provocato dal primo lockdown era piuttosto diffusa, sia perché cantare fuori dal coro è qualcosa che agli avvocati, in generale, non piace fare.
«Guarda che ci sono stati colleghi licenziati con un messaggio sul telefono». Qualcuno di voi lo sa. Qualcuno di voi me lo ha detto. Ma, stando a quello che è emerso in questi mesi, si tratta di casi isolati. Eccezioni. Il mantra è stato ”proteggere il capitale professionale” degli studi.
Ma se “l’ordine di scuderia” fosse stato un altro? Se i trend setter del comparto avessero messo mano agli organici e senza troppo rumore (o cercando di ridurre il rumore più che si potesse) tracciando un solco nel quale anche altri si sarebbero sentiti legittimati ad agire, forse a quest’ora staremmo raccontando una storia diversa. Una storia dai toni ben più delicati. Un revival di quello che il settore ha visto negli anni successivi alla grande crisi del 2008.
Questo dato dovrebbe spingere le associazioni di categoria e i professionisti direttamente interessati a prendere in mano, una volta per tutte, la questione dell’inquadramento degli avvocati monomandatari. Professionisti mono-cliente. Consulenti di consulenti.
Le ragioni sono diverse. Ma ne voglio segnalare due particolarmente rilevanti.
La prima è che gli appartenenti a questa specifica categoria professionale sono destinati a crescere. In Italia si contano 246mila avvocati. Si viaggia verso i 250mila. Pensare che potranno essere tutti titolari di studio e “imprenditori di se stessi” è decisamente poco realistico. Più probabile che, con diverse formule e con varie soluzioni, la stragrande maggioranza dei professionisti sarà sempre più “dipendente” da un’associazione, un network, una piattaforma.
La seconda è che in Parlamento ci sono diversi progetti di legge che si occupano della materia e che non sempre tengono conto delle peculiarità e delle diverse condizioni in cui i rapporti di collaborazione professionale si possono instaurare. L’avvocatura ha diritto a una legge che si ispiri alle best practice del settore e non si limiti a fornire solo opzioni di massima a cui i titolari di studio potranno far riferimento nei limiti della loro magnanimità. Cambiar tutto per non cambiar niente non serve a nessuno. Mentre cogliere il momento per imporre un principio di civiltà professionale dovrebbe essere avvertito come un dovere dalla componente più illuminata della categoria.
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