Società benefit: sono oltre 3mila. Ma hanno spazio nel framework Csr europeo?
di giuseppe salemme
Tenere il passo con la legislazione europea sulla sostenibilità sta diventando sempre più difficile. La direttiva Nfrd sulla rendicontazione non finanziaria è stata aggiornata dalla Csrd, a cui si aggiungerà presto la quella che attualmente è abbreviabile in Csdd (“corporate sustainability due diligence”). L’Unione europea punta così ad obbligare sempre di più le aziende a rendere trasparente l’impatto ambientale e sociale delle loro attività, e prossimamente anche a prevenire e ridurre qualsivoglia danno in termini ambientale o di diritti umani dovesse risultare dalle stesse.
Si tratta di un framework normativo che andrà poi recepito dai singoli stati, e armonizzato con le norme nazionali già presenti che vanno nella stessa direzione di quelle comunitarie. In Italia abbiamo ad esempio le società benefit: un istituto introdotto nel 2016 che permette, alle aziende che lo richiedono, di aggiungere nell’oggetto sociale un obiettivo di “beneficio comune”. In funzione perseguimento di tale scopo, che può essere di varia natura, le società benefit pubblicano annualmente un report delle azioni messe in campo e dei risultati raggiunti, e si dotano di un “responsabile d’impatto”.
Ma quale spazio rimane per le società benefit nello scenario normativo europeo e in prospettiva? Hanno ancora senso? O sono superate?
A queste domande hanno provato a rispondere lo studio legale e tributario Andersen e Nedcommunity, associazione italiana degli amministratori non esecutivi e indipendenti, nella tavola rotonda di mercoledì 15 marzo. Sandro Catani, of counsel di Andersen e presidente del comitato saggi di Nedcommunity, ha gestito i lavori, che hanno raccolto gli spunti “istituzionali” di Guido Ferrarini, professore emerito di diritto finanziario all’Università di Genova e presidente del comitato scientifico di Nedcommunity, Francesco Marconi, partner di Andersen, e Silvia Stefini, presidente di Chapter Zero Italy, e quelli provenienti direttamente dal mondo corporate, con Giangiacomo Ibba di Abbi Group, Andrea Ferlin di Professional Link e Michela Conterno di Lati.
Ecco i tre concetti più interessanti emersi dalla discussione.
I numeri di un successo, e cosa c’è dietro
Sono circa 3mila le società benefit attive in Italia a marzo 2023. Ben sei volte il numero registrato tre anni fa, a inizio pandemia (511), nonostante, come detto, l’istituto sia stato introdotto nel 2016: un’impennata spiegabile con un generale aumento della consapevolezza in fatto di corporate social responsibility proprio in corrispondenza del diffondersi del virus.
Ma non è l’unica spiegazione del successo dell’istituto: come hanno sottolineato in molti, il tessuto imprenditoriale italiano è storicamente formato in gran parte da aziende piccole e/o familiari, in quanto tali molto legate al territorio e alle proprie comunità di riferimento. In uno scenario simile, può risultare particolarmente agevole o conveniente formalizzare questo commitment decidendo di acquisire la qualifica di benefit per strutturare e rendere pubblico il proprio impegno.
Allo stesso tempo, non vanno mai confuse forma e sostanza: si può avere a cuore l’impatto delle proprie attività su ambiente, persone e società anche in assenza della specifica qualificazione giuridica. È una questione in primis di cultura aziendale.
Purpose vs profit
Il perseguimento di un profitto e quello di un beneficio comune sono obiettivi conciliabili all’interno della stessa struttura aziendale? È il concetto di “purpose beyond profit” o, come sintetizzato nell’ordinamento britannico, di “enlightened shareholder value”. Lo stesso codice di corporate governance (l’ex codice di autodisciplina delle società quotate) prevede, all’articolo 1, che l’organo di amministrazione persegua il “successo sostenibile”, cioè la creazione di valore sul lungo termine e tenendo conto non solo degli azionisti ma anche degli altri stakeholder rilevanti per la società.
Se anche la ricerca del profitto privato potesse lasciare uno spazio per quella di un giovamento collettivo, questo non renderebbe comunque la società benefit l’unica forma adatta a tale scopo. Le società quotate, ad esempio, non hanno abbracciato la possibilità di trasformarsi in benefit: da un lato, secondo alcuni, perché la modifica all’oggetto sociale richiesta dall’istituto configurerebbe una possibile causa di recesso per i soci; dall’altro, perché chi investe in Borsa potrebbe non vedere di buon occhio un impegno non esclusivamente diretto al conseguimento di profitti.
Più in generale, ad ogni modo, il problema sembra essere dimensionale: nelle pmi gli stakeholder sono limitati, e dunque darsi un purpose e seguirlo è più facile; nelle grandi imprese quotate, che devono dar conto a shareholders numerosi e diversificati, il mantra rimane “profits first“.
Lo spazio per le società benefit nel nuovo framework UE
Dopotutto, anche il già citato framework europeo sulla corporate responsibility non si applica indiscriminatamente a tutte le aziende. Le direttive sopra citate, ad esempio, non interesseranno (se non di riflesso) le aziende piccole e non quotate, per cui la possibilità di costituirsi come società benefit rimarrà dunque attrattiva per comunicare e formalizzare un commitment pubblico.
Discorso diverso va fatto per le società più grandi o di interesse pubblico, soggette agli obblighi di rendicontazione di sostenibilità (della Nfrd prima e della Csrd poi), o che saranno interessate dalle future norme sulla corporate due diligence (finalizzate alla prevenzione delle esternalità negative su ambiente e diritti umani non solo della singola realtà aziendale ma della sua intera supply chain).
Per questo secondo insieme di aziende, l’aggiunta dello scopo benefit all’oggetto sociale può rappresentare al più una strada per avvicinarsi gradualmente e su base volontaristica a questo genere di adempimenti; tenendo sempre presente che i criteri di rendicontazione europei, attualmente in fase di elaborazione da parte dell’Efrag (European financial reporting advisory group) saranno con ogni probabilità più stringenti di quelli liberamente adottati dalle società benefit.