SCOFFERI: A PROPOSITO DI ARTICOLO 18
Dopo l'editoriale ECCO PERCHE' L'ART. 18 E' UN SIMBOLO DA NON ABBATTERE, abbiamo ricevuto diverse mail dai nostri lettori. Qui vi proponiano la posizione di Mario Scofferi, ringraziandolo per il contributo al dibattito su questo delicato tema.
Egregio Direttore,
ho letto con interesse il Suo articolo sulla proposta di riforma dell’art. 18 Stat. lav. rispetto al quale, forse perché è la prima volta che non condivido i Suoi pensieri, mi permetto di scriverLe questa missiva.
Una disamina approfondita del tema richiederebbe uno spazio che non mi è, né potrebbe essermi, concesso. Mi limiterò dunque a segnalare un equivoco di fondo (che ho rilevato nelle ormai migliaia di pagine che al riguardo si sono scritte): l’art. 18 non riguarda – né ha mai riguardato – la «possibilità» di licenziare, bensì le (sole) conseguenze derivanti da un licenziamento privo di giustificazione, ossia un licenziamento che – in base ad una norma diversa dallo Statuto dei lavoratori, più datata e che nessuno sta pensando di modificare – «non si poteva fare».
Discutere sulla sostituzione della reintegrazione con un «indennizzo» non significa quindi, come invece spesso si legge, ammettere o meno un «via libera» ai licenziamenti, per i quali era e resta necessaria una solida motivazione, ma solo sulle conseguenze cui il datore di lavoro è tenuto in caso di licenziamento ingiustificato.
A mio avviso discutere dell’eliminazione della reintegrazione, eccezion fatta naturalmente per i licenziamenti discriminatori, vuole dire anche un’altra cosa. Vuole dire consentire ad ogni imprenditore, e non solo a quelli di ridotte dimensioni (che, peraltro, nel nostro Paese sono la larga maggioranza), una effettiva autonomia decisionale sull’assetto ed organizzazione della propria impresa. Magari facendo scelte sbagliate, ma assumendo senza ingerenze – in quanto unico soggetto che si assume il rischio d’impresa – decisioni che riguardano l’attività per la quale normalmente tanto si è investito, senza che qualche minoritario orientamento giurisprudenziale applicato da qualche remoto Tribunale possa, nei fatti, imporgli chi e come debba lavorare nella sua azienda.
Ebbene: a parere di chi scrive questo è il vero principio di civiltà che un Legislatore (libero da influenze) dovrebbe perseguire, non una difesa ad oltranza di una norma – peraltro riservata ad una ristretta cerchia di lavoratori – concepita in un contesto distante anni luce da quello attuale ed oggi più che mai anacronistica. Principio che non potrà che contribuire all’incremento, e non alla riduzione, dei posti di lavoro, poiché una maggiore certezza nella gestione degli esuberi importerà una minore «paura» di instaurare rapporti che, oggi, vengono percepiti (se mi concede l’espressione) più stabili ed onerosi di un matrimonio. Principio che, inoltre, dovrebbe anche ridurre le forme di precariato (o quantomeno quelle più diffuse, come i contratti a progetto) le quali, già non giustificabili in termini di costi, senza effettivi vantaggi in termini di (minore) stabilità del rapporto non avrebbero più alcun senso di esistere.
Concludo chiarendo di trovarmi d’accordo con Lei, quando afferma che l’art. 18 non sia la principale causa dei problemi nostrani. Ritengo tuttavia, al contempo, che la sua modifica costituisca un primo – sì piccolo, ma non per questo meno fondamentale – passo per dare certezza alla gestione dei rapporti ed, in definitiva, serietà al nostro Paese.
Un caro saluto,
Mario Scofferi