Sciascia-Tortora: la proposta di legge non resti solo un esercizio intellettuale

di nicola di molfetta

Come si forma un magistrato? E un avvocato?* La risposta, i lettori di MAG la conoscono bene. Tuttavia, è giusto chiedersi se, oltre a quanto si fa già, sarebbe possibile prevedere qualcosa di più. Ragionare di poteri e responsabilità. La Giustizia, del resto, non è un gioco. E la salute civile, non smetterò mai di dirlo, conta tanto quanto quella fisica.

Dallo scorso settembre, la II Commissione Giustizia della Camera, ha nell’elenco delle proposte di legge da “processare” un testo associato al numero 2060 e ai nomi di due grandi della storia italiana: Leonardo Sciascia ed Enzo Tortora.

Questa proposta firmata da un gruppo multipartisan di deputati, si propone di aggiungere a quanto già previsto dal testo del dlgs. 26/2006 istitutivo della Scuola Superiore della Magistratura, un comma (3-bis) con cui si preveda di far trascorrere non meno di 15 giorni in carcere ai tirocinanti futuri magistrati. Per i dettagli vi rimando all’archivio online della Camera. L’iniziativa ha diverse madri e diversi padri: dalla presidente degli Amici di Leonardo Sciascia, l’avvocata Simona Viola, alla Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora, agli esponenti di Italia Stato di Diritto, oltre che alla Società della Ragione e all’Unione delle Camere Penali a cui, prima della sottoscrizione formale, si sono aggiunte le firme di oltre 200 personalità del mondo del diritto, avvocati e professori del calibro di Natalino Irti, Franco Coppi, e Giovanni Fiandaca.

Il testo potrebbe sembrare una provocazione intellettuale. Ma non lo è affatto. E meriterebbe di percorrere a grandi falcate l’intero iter che dovrà portarlo a diventare legge dello Stato. Esso tocca e solleva una questione che si intreccia oggi più che mai con i problemi che l’amministrazione della Giustizia in Italia si trova ad affrontare. Questioni che si intersecano tra loro in una matassa che conta tra i suoi filamenti ulteriori questioni di stretta attualità come il diritto all’affettività dei detenuti (riconosciuto ma ancora non garantito), la giustizia riparativa e, più in generale la condizione carceraria (si pensi solo al sovraffollamento).

Condannare alla detenzione senza sapere davvero cosa significhi la vita in carcere e quali effetti possa produrre sulle persone significa esercitare un potere semidivino senza un’adeguata consapevolezza di ciò che esso può implicare.

Perché Sciascia? Perché lo scrittore, giornalista, ed ex parlamentare, nel 1983 firmò un pezzo per il Corriere della Sera sulla responsabilità del giudice in cui ragionava della possibilità di prevedere per ogni magistrato, fresco di concorso, almeno tre giorni “di galera” che insegnassero, oltre i tomi e la dottrina, cosa implica la prigione sentenziata contro il malcapitato di turno. Non erano giorni qualsiasi. Pochi mesi prima era cominciato l’incubo giudiziario di Enzo Tortora destinato a diventare uno dei casi emblematici di malagiustizia nella storia del Paese.
I tre giorni dell’invocazione sciasciana possono sembrare meno ambiziosi dei “non meno di quindici” previsti dal progetto di legge 2060, ma se vogliamo avevano una portata simbolica rilevante. Tre giorni, come quelli necessari alla resurrezione, ovvero alla ricostruzione del tempio. Tre giorni per edificare una nuova coscienza in chi esercita un compito gravoso e, pertanto, non deve mai perdere il senso della fatica ad esso correlata.

Ma non fu, quella di Sciascia, la prima voce a sollevare il tema. Piero Calamandrei, in un intervento del 27 ottobre 1948 sullo stato di previsione della spesa del Ministero di grazia e giustizia per l’esercizio finanziario 1948-49, evocò la figura di Pasquale Saraceno, consigliere di Corte d’Appello che chiese ai suoi superiori di poter essere mandato in incognito e per qualche mese in un «reclusorio» assieme ai carcerati per comprenderne la condizione e riuscire poi ad adempiere i suoi doveri con maggiore coscienza. «Vedere! Questo è il punto essenziale», tuonò Calamandrei.
E per cominciare ad acuire la vista, dicono gli estensori del progetto 2060, si potrebbe partire proprio dalla letteratura che da sempre ragiona della giustizia degli uomini e delle sue diramazioni. Infatti, la proposta contiene anche una integrazione del dlgs. 160/2006 relativo alla nuova disciplina dell’accesso alla magistratura. Il testo suggerisce di rendere materia di esame per la prova orale anche la «letteratura dedicata al ruolo della giustizia, quale strumento di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali, della dignità umana e del rispetto reciproco tra persone…». Un dovere di conoscenza, forse meno drastico della esperienza immersiva nelle carceri di Stato, ma altrettanto fondamentale per arricchire la competenza tecnica del giusto grado di sensibilità umana.

*Ps. Nell’incipit del pezzo ho fatto riferimento anche alla formazione degli avvocati. Non è stato un lapsus. Credo che la consapevolezza auspicata in questi discorsi sia da coltivare in chiunque esercita, attraverso la propria opera professionale, un potere capace di incidere sull’esistenza degli altri. Giudici, certo. Ma anche avvocati, medici, giornalisti e scegliete voi come continuare.

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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