RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E LICENZIAMENTI COLLETTIVI
di Angelo Zambelli*
Il Disegno di Legge sulla riforma del mercato del lavoro, attualmente al vaglio del Parlamento, prevede una serie di modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi contenuta nella Legge n. 223 del 23 luglio 1991. In estrema sintesi, tale Legge prevede che i datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti e che, a causa di una riduzione, di una trasformazione o della cessazione dell'attività aziendale, intendono effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni (in una unità produttiva o in più unità produttive in una stessa provincia) devono esperire preventivamente una procedura (c.d. "di mobilità") a carattere consultivo articolata due fasi: la prima di consultazione in sede sindacale e la successiva, solo eventuale, in sede amministrativa. La fase di consultazione sindacale deve essere esperita entro il termine di 45 giorni (il termine è ridotto della metà se i lavoratori in esubero sono meno di 10) dalla data di ricevimento della comunicazione di avvio trasmessa dal datore di lavoro ai destinatari previsti dalla legge, ovvero le rappresentanze sindacali aziendali e le rispettive associazioni sindacali (in assenza di rappresentanze sindacali aziendali, la comunicazione deve essere inviata alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale). La comunicazione di avvio della procedura deve avere forma scritta e deve contenere una serie di puntuali indicazioni specifiche precisate dalla legge (in particolare, i motivi che hanno determinato l'eccedenza di personale ed i motivi tecnici, organizzativi e/o produttivi per i quali si ritiene di non poter evitare gli esuberi , il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali del personale eccedente e di quello abitualmente impiegato, i tempi di attuazione del programma di mobilità, le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma, il metodo di calcolo delle attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva). Sul punto, si segnala la prima novità prevista nell'ipotesi di riforma: gli eventuali "vizi" afferenti alla comunicazione di avvio della procedura (quali, ad esempio, l'insufficiente specificità delle indicazioni richieste dalla legge) possono essere sanati dall'accordo sindacale eventualmente raggiunto nel corso della procedura. Ciò significa che tali vizi non potranno più essere, come avveniva in passato, motivo di inefficacia dei recessi intimati all'esito della procedura. Proseguendo con l'illustrazione della procedura, si ricorda che entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione di avvio, le rappresentanze sindacali possono richiedere un "esame congiunto" volto ad esaminare le cause che hanno determinato l’eccedenza di personale e l'eventuale possibilità di evitare o ridurre gli esuberi programmati. Se le parti, nell'ambito della consultazione sindacale, raggiungono un accordo, la procedura si esaurisce ed il datore di lavoro può intimare i licenziamenti con conseguente collocazione dei lavoratori in mobilità. Nell’accordo le parti possono stabilire altresì i criteri di scelta da osservare per il licenziamento del personale in esubero, e ciò anche in deroga ai criteri legali previsti dall’art. 5 della Legge 223, ovvero: carichi di famiglia; anzianità di servizio; esigenze tecnico-produttive e organizzative. Laddove, invece, siffatto accordo non venga raggiunto, decorsi i 45 giorni previsti dalla legge si instaura la successiva fase in sede amministrativa attraverso l'invio di una comunicazione che riporti l'andamento dell'esame congiunto ed i motivi del suo esito negativo all’ufficio competente (la Regione o, in alcuni casi, la Provincia). Tale seconda ed eventuale fase in sede amministrativa ha una durata massima di 30 giorni (anche in questo caso il termine è ridotto della metà qualora il licenziamento collettivo coinvolga meno di 10 lavoratori). Al termine della procedura, anche in assenza di accordo il datore di lavoro può intimare i licenziamenti, comunicando all’ufficio del lavoro competente ed alle associazioni di categoria l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione dei dati anagrafici e professionali di ciascun lavoratore licenziato nonché delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta. In base alla disciplina sino ad oggi vigente, tale comunicazione doveva essere trasmessa contestualmente all'intimazione di recessi: il Disegno di Legge prevede, invece, che essa debba esser effettuata entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi, con ciò sgombrando il campo da ogni possibile dubbio applicativo relativo al (poco chiaro e origine di incertezze operative) concetto di "contestualità". Quanto alle conseguenze previste in ipotesi di dichiarazione giudiziale di illegittimità del licenziamento (a seguito di impugnazione da parte del lavoratore nel termine decadenziale di 60 giorni), l'ipotesi di riforma prevede l'applicazione dello stesso regime sanzionatorio relativo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Pertanto, nel caso in cui all'esito della sopra cennata procedura il licenziamento venga individualmente intimato senza l'osservanza della forma scritta, il giudice – come avvenuto sino ad oggi – continuerà a condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed alla corresponsione in favore del medesimo di un'indennità risarcitoria pari alle retribuzioni non percepite dal recesso sino alla reintegrazione. Ciò che cambia è l'entità di tale indennità risarcitoria, che sino ad oggi doveva essere "almeno pari" a 5 mensilità, senza previsione di alcun limite massimo: in base al Disegno di Legge, invece, essa non sarà soggetta ad alcun limite minimo, mentre dovrà essere comunque ricompresa entro il limite massimo delle 12 mensilità. Viene altresì espressamente previsto che da tale indennità dovrà essere dedotto quanto il lavoratore abbia percepito – o avrebbe potuto percepire, dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione – nel corso del periodo di "estromissione" dal servizio. Analogamente, la reintegrazione continuerà ad essere l'unica sanzione possibile in ipotesi di licenziamento intimato in violazione dei summenzionati criteri di scelta individuati dalla legge o dall'eventuale accordo sindacale. Si segnala che, rispetto alla prima versione del Disegno di Legge presentata dall'Esecutivo, nel corso dell'esame parlamentare è stata espunta la facoltà del giudice di disporre la reintegrazione del lavoratore nell'ipotesi di "manifesta insussistenza" del fatto posto a base del licenziamento (per giustificato motivo oggettivo), contenuta nel secondo periodo del settimo comma del "nuovo" articolo 18 L. 300/1970. Ed infatti una siffatta ipotesi mal si attagliava alla fattispecie dei licenziamenti per riduzione di personale. Il regime sanzionatorio applicabile in ipotesi di violazione della procedura di licenziamento collettivo sarà quello previsto dal "terzo periodo del settimo comma" del novellato articolo 18 L. 300/1970: in base a tale norma, qualora venga accertato giudizialmente che "non ricorrono gli estremi" di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il datore di lavoro sarà condannato esclusivamente alla corresponsione, in favore del lavoratore illegittimamente licenziato, di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura variabile tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità, da determinarsi in considerazione dell'anzianità anagrafica del lavoratore, del numero di dipendenti occupati dall'impresa, delle dimensioni dell'attività economica, nonché del comportamento e delle condizioni delle parti. Al riguardo, è presumibile che a fronte della lesione di un interesse latu sensu "generale" come nel caso di vizi formali della procedura sindacale, il giudice propenderà per la quantificazione di tale indennità in misura massima o, comunque, comparativamente più alta rispetto ad analoghe fattispecie di licenziamento individuale. La modifica è comunque assai rilevante: sino ad oggi, infatti, i licenziamenti intimati senza l'osservanza delle prescrizioni procedurali di cui all'art. 4 della Legge 223/1991 erano da ritenersi inefficaci, con conseguente automatica reintegrazione del lavoratore. E' possibile, inoltre, che – soprattutto qualora non venga raggiunto l'accordo sindacale nel corso della procedura – il nuovo impianto normativo delineato dalla riforma possa indurre le Organizzazioni Sindacali ad un ricorrente utilizzo del procedimento sommario previsto dall'art. 28 della Legge 300/1970 in caso di comportamento antisindacale, ritenuto preferibile all'azione individuale promossa dal lavoratore: relativamente ai licenziamenti collettivi, tale tutela è stata ritenuta esperibile dalla giurisprudenza in molteplici ipotesi, quali, ad esempio, il mancato coinvolgimento di alcune delle sigle sindacali individuate dalla legge come destinatarie della comunicazione di avvio della procedura, ovvero l'incompleta e/o generica indicazione delle circostanze che hanno determinato la situazione di eccedenza di personale, ecc. Ebbene, in tali ipotesi, l'eventuale provvedimento giudiziale di accoglimento del ricorso ex art. 28 L. 300/1970 comporterebbe la "rimozione degli effetti" della condotta antisindacale e, dunque, l'annullamento dei licenziamenti eventualmente già intimati all'esito della procedura viziata, con conseguente riammissione in servizio dei lavoratori illegittimamente licenziati e la corresponsione in loro favore delle retribuzioni non percepite dall'intimazione del recesso sino alla riammissione. Pertanto, attraverso il procedimento per "comportamento antisindacale" i lavoratori potrebbero "ritrovare" quella ricostituzione del rapporto di lavoro che l'ipotizzata riforma dell'art. 18 ha voluto espungere dai rimedi previsti – per quanto riguarda la fattispecie qui in esame – nel caso di violazione della procedura di licenziamento collettivo. In altre parole, in virtù del procedimento previsto dall'art. 28 della L. 300/1970 i lavoratori potrebbero ottenere la ricostituzione del rapporto di lavoro, nonostante l'ipotesi di riforma abbia inteso circoscrivere tale rimedio ai soli casi di licenziamento intimato "senza l'osservanza della forma scritta" o in violazione dei criteri di scelta. Senza dimenticare che, a seguito di una declaratoria di antisindacalità, il datore di lavoro sarebbe costretto ad avviare una nuova procedura di licenziamento collettivo, con i relativi rischi ed oneri ad essa connessi, per poter effettivamente attuare la necessaria riduzione di personale.
*Partner, Grimaldi Studio Legale, Responsabile dipartimento di diritto del lavoro