Rachel Cohen: la mia generazione, giuristi contro il sistema
di michela cannovale
Nel mondo dorato delle grandi law firm americane – quelle delle parcelle milionarie, dei grattacieli di vetro e acciaio, e delle fusioni aziendali da prima pagina – esistono regole non scritte, scolpite nella cultura di studio più ancora che nei codici. Una su tutte: non si sfida apertamente la linea del management. Mai, e men che meno in pubblico.
Lo sa bene Rachel Cohen, giovane avvocata entrata nel 2022 nella sede di Chicago del colosso legale Skadden (Skadden, Arps, Slate, Meagher & Flom LLP) con il ruolo di finance associate. Nel momento in cui, nei mesi scorsi, le pressioni della Casa Bianca hanno iniziato a stravolgere gli equilibri tra politica e giustizia, ha deciso che quelle regole non scritte non potessero più essere valide. Almeno per lei.
A cambiare le carte in tavola è stato l’accordo da 100 milioni di dollari in servizi pro bono stretto da Skadden con l’amministrazione Trump. Un’intesa che si inserisce in un clima di crescente pressione da parte dell’esecutivo Usa nei confronti di alcuni studi legali, accusati di interferire nelle elezioni o di essere soliti a pratiche di assunzione non corrette dopo che, con una serie di ordini esecutivi e lettere formali, il governo ha messo sotto esame le loro politiche interne legate alla diversità e alla selezione del personale (DEI). A diversi osservatori fuori e dentro la politica americana, tuttavia, la scelta degli obiettivi è apparsa in più di un caso tutt’altro che neutrale dal momento che ha interessato studi che in passato hanno sostenuto posizioni progressiste o difeso clienti scomodi all’amministrazione attuale.
Diverse grandi law firm, tra cui Paul Weiss, Willkie Farr e, appunto, Skadden, hanno scelto la via della collaborazione: un patto preventivo con Washington per evitare possibili ritorsioni e l’impegno a fornire, complessivamente, 900 milioni di dollari in servizi legali gratuiti per cause allineate con le priorità del governo. Per molti, una mossa prudente. Per Cohen, un tradimento.
Quando è diventato chiaro che Skadden non avrebbe preso una posizione contro gli attacchi della presidenza, l’avvocata ha rassegnato le proprie dimissioni, generando un effetto domino che si è fatto sentire anche fuori dai circuiti del diritto. Nel giro di poche settimane, diversi associate provenienti anche da altri studi legali d’affari si sono licenziati per motivi simili e hanno lanciato campagne per manifestare il proprio dissenso. In 2mila hanno firmato una lettera che invita gli studi a difendere l’indipendenza della professione dalle pressioni politiche, in nome dello Stato di diritto. Molti di loro, inoltre, hanno invocato la rimozione – dai consigli di università, associazioni civiche e fondazioni – di quegli avvocati ritenuti «arrendevoli e non affidabili in contesti di difesa dello Stato di diritto», ci ha raccontato Cohen, che più volte durante l’incontro con la nostra redazione ha sottolineato: «Sentivo che ci stavamo mettendo dalla parte sbagliata della storia».
Dopo aver lasciato Skadden, l’avvocata è entrata in Lowell and Associates, law firm indipendente fondata con l’obiettivo di fornire assistenza legale a persone e organizzazioni colpite da azioni governative motivate politicamente. Sul suo profilo Linkedin, oggi la professionista di presenta così: “Attorney. Opinions are loud and my own”.
Eppure, non solo di idealismo si tratta, e per questo abbiamo deciso di intervistarla.
La vicenda di Rachel Cohen appare emblematica di un nuovo paradigma culturale che sta mettendo in discussione le fondamenta dell’intero sistema legale, spinto da una generazione di giovani avvocati cresciuti in un contesto segnato da crisi globali, disuguaglianza economica e polarizzazione politica. Una generazione che sembra voler riportare al centro del mestiere non solo la competenza tecnica, ma anche un’etica radicata. I valori al posto della prudenza. La responsabilità sociale al posto degli interessi. L’idea che scegliere “da che parte stare” non sia un gesto politico, ma un dovere professionale. E forse, alla fine, la differenza potrebbe farla proprio chi oggi sta ancora imparando, osservando, ascoltando, dalle posizioni iniziali della carriera. Persone che un giorno, probabilmente, si troveranno al timone degli studi legali, decidendone le priorità e tracciando la linea di ciò che si accetta e ciò che si rifiuta.
Avvocata Cohen, quanto è stato difficile decidere di rassegnare le dimissioni in quel momento della sua carriera legale?
Mi sono dimessa perché il fatto che molti grandi studi d’affari come Skadden non stessero reagendo in modo adeguato alle azioni dell’esecutivo era un segnale evidente di un autoritarismo in fase embrionale. La cosa era preoccupante. È stata una decisione durissima, ma sapevo che più avessi aspettato, più sarebbe stato difficile cambiare le cose. Meglio agire subito, prima che fosse troppo tardi.
C’è stato un episodio in particolare che le ha fatto capire che non sarebbe più potuta rimanere?
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la mossa di un altro studio, Paul Weiss, che ha offerto all’amministrazione Trump 40 milioni di dollari in consulenze legali gratuite, in cambio del ritiro di un provvedimento. Io, nel frattempo, ho insistito perché Skadden prendesse posizione in difesa degli studi penalizzati per aver rappresentato clienti scomodi al governo, per poi capire che non c’era alcuna volontà di cambiare rotta. Mi sono dimessa per questo. E una settimana dopo, anche Skadden ha firmato con la Casa Bianca lo stesso accordo, offrendo 100 milioni in assistenza pro bono.
E come hanno reagito i suoi colleghi e superiori?
In generale, ho ricevuto molto sostegno, ma pochi dei soci di studio si sono poi fatti sentire nelle settimane a seguire. Probabilmente, in questo momento, parlare con me non è proprio “consigliato”…
Nella pratica, in che modo gli ordini esecutivi di Trump hanno influenzato l’attività quotidiana nei grandi studi come Skadden?
La conseguenza più immediata è stata la paura. Molti studi hanno iniziato a evitare certi casi pro bono, soprattutto quelli che potevano sembrare “contro” il governo, per timore di ritorsioni. All’inizio si trattava di casi esplicitamente politici, ma a breve verranno impattate anche pratiche più generiche, come quelle legate all’immigrazione. E intanto girano voci secondo cui i servizi legali gratuiti promessi al governo verranno usati per difendere agenti di polizia accusati di violenze. Siamo solo agli inizi, ma le ripercussioni di queste scelte arriveranno presto.
Ma c’era un’alternativa secondo lei? O meglio, crede che i grandi studi abbiano davvero una responsabilità morale quando le politiche governative entrano in zone eticamente grigie o pericolose?
Assolutamente sì! Credo che tutti gli avvocati abbiano il dovere civico di opporsi quando i potenti cercano di smantellare il sistema legale con il fine di concentrare ancora più potere nelle proprie mani.
E i piccoli studi?
Certo! È una questione di integrità per quanto mi riguarda, non di dimensioni dello studio.
E se parliamo di età, nota una differenza generazionale nel modo in cui gli avvocati interpretano il proprio ruolo, soprattutto in tempi politicamente difficili?
L’idea della frattura generazionale è spesso fuorviante. Conosco molti avvocati senior che hanno il coraggio di dire le cose come stanno. Più che l’età, la vera differenza sta tra chi ha interessi economici da difendere, come i partner, e chi invece no. I partner rischiano una riduzione nei guadagni – che resterebbero comunque enormi – e spesso preferiscono non esporsi. È lì che si crea la spaccatura.
Non crede che i giovani avvocati oggi abbiano un approccio diverso a temi come l’etica, la giustizia sociale e il lavoro pro bono rispetto alle generazioni precedenti?
In parte sì. Ma più che una questione di età, ritengo si tratti di una questione di posizione all’interno del sistema. È vero che nei grandi studi sono più spesso i giovani avvocati a parlare apertamente di questi temi, ma questo succede forse anche perché chi ha davvero a cuore questi valori tende a lasciare lo studio prima di raggiungere il livello di partner. Anche tra gli avvocati senior, infatti, ce ne sono molti che hanno dedicato l’intera carriera a questi valori.
Col senno di poi, che effetto pensa abbia avuto la sua decisione di rassegnare le dimissioni su chi le stava intorno, in studio, tra i colleghi o nella comunità legale in generale?
L’impatto maggiore è stato sicuramente all’interno della comunità legale, e in modo molto più significativo di quanto avessi immaginato. Anzi, sto ancora scoprendo tutti gli effetti di quella scelta…
…una scelta che ha cambiato il suo modo di vedere il successo e ciò che desidera dalla sua carriera, forse?
Più che cambiare la mia idea di successo, ha cambiato le tempistiche. È come se il mio piano quinquennale si fosse compresso in sei settimane!
Di sicuro ha avuto conseguenze inaspettate. Ma si sente un’eccezione? O crede che altri avvocati seguiranno il suo esempio nel prossimo futuro?
Ad oggi, ci sono già diversi giovani colleghi che si sono dimessi pubblicamente, e molti altri lo hanno fatto in silenzio. Mi sentirò sempre un po’ un’eccezione perché sono stata la prima, ma penso che in realtà le idee che porto avanti siano condivise da una fetta molto ampia della società americana.
Se oggi una studentessa di giurisprudenza le chiedesse un consiglio sull’entrare o meno in un grande studio legale d’affari, cosa le direbbe?
Non do consigli assoluti, perché ognuno ha i suoi vincoli economici e personali. Ma una cosa la dico a tutti: ricordate il potere che avete. Non accettate lavori che trovate immorali o contrari ai vostri valori. Imparate a dire di no, e a farlo con fermezza ma professionalità. I vertici cercheranno sempre di convincervi che non avete voce in capitolo. Non è vero. È solo un modo per tenervi al vostro posto.
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