Qui es tu, o counsel?
C’è un elemento semantico che emerge dalla ricognizione sui fatturati degli studi legali d’affari in Italia di quest’anno: l’esplosione della qualifica di counsel nella ripartizione organizzativo-gerarchica di queste strutture. I counsel censiti in questa edizione della Best 50 di Mag e Legalcommunity sono più di 600, sul totale di una popolazione professionale che conta quasi 12mila individualità. Questo 5%, che potrebbe sembrare ancora minimo, in realtà è molto più consistente se si considera che è riferito solo a 35 strutture su 50. E se si osservano meglio, queste 35 realtà, si nota che i counsel sono, in proporzione, il 50% dei soci (che, nel complesso, in questi 35 studi, sono circa 1.200). Inoltre, va detto, che l’utilizzo di questa qualifica, in Italia, è recentissimo: dieci anni fa, i counsel non esistevano (si veda, in proposito, l’editoriale al numero 80 di MAG, del 2017).
Un tempo, la gerarchia nelle associazioni professionali era più semplice e lineare. Si partiva dai praticanti, altrimenti definiti trainee, si passava ai collaboratori, detti associate, quindi si arrivava ai senior associate, per indicare quei collaboratori con un’anzianità di servizio superiore ai sette-otto anni. Infine, sul gradino più alto, c’erano i partner: i soci. Con il tempo, e l’ingrossarsi delle fila dei professionisti arruolati in queste strutture bisognose di fare leva per aumentare i loro profitti, molte di queste voci hanno subito ulteriori declinazioni. A cominciare dai partner che sono diventati, a seconda dei casi e delle esigenze, salary, junior, associate, equity, senior, local, founding, name. Da sempre, poi, la ripartizione gerarchica degli studi legali ha avuto, nel nostro Paese anche la presenza degli of counsel: avvocati esperti, spesso altamente specializzati, in molti casi con un profilo accademico, in grado di svolgere un ruolo strategico senza partecipare alla compagine societaria dello studio.
Fin qui, le cose, pur nella loro varietà caleidoscopica, potevano tornare perché (soprattutto dopo che si era capito che associate non si doveva tradurre con associato, sinonimo di socio, ma con collaboratore, sinonimo di prestatore d’opera) alla fine, ogni categoria gerarchica era associata a un’etichetta semantica ben definita.
Quando, invece, i primi studi internazionali hanno cominciato a usare il termine counsel (che non è of counsel), le cose si sono complicate.
Oggi, il termine counsel è spesso impiegato con una certa vaghezza. In alcuni studi, il counsel è una figura “tecnica”, esperta ma senza responsabilità manageriali o commerciali. In altri, è un quasi-partner: qualcuno che ha la seniority, ma non ancora l’equity. Altre volte ancora, viene utilizzato per valorizzare un professionista al quale non si intende – o non si può – riconoscere la qualifica di partner, ma che si vuole trattenere nello studio con un ruolo di prestigio. In molti studi internazionali, il professionista che arriva sulla casella del counsel, nel goose game della carriera, è un soggetto alle soglie del grande salto per la partnership. “Sono praticamente l’analogo dei salary partner di molti studi italiani”, tengono solitamente a specificare i managing partner di queste strutture. Intanto, nelle organizzazioni italiane gli of counsel, che tendenzialmente alla partnership non approderanno mai, in alcuni casi contano più dei counsel, che sono qualcosa meno o qualcosa più di un collaboratore anziano, e che, in teoria, possono ambire a tagliare il traguardo dell’equity.
Lo vedo il fumo che si alza dalle vostre teste. E me ne scuso. Ma questo è.
Lungi dal criticare l’uso dell’inglese che può essere visto come prassi indicativa di un settore sempre più globalizzato, e prono a comunicare apertura al mercato internazionale, bisogna ammettere che la traduzione culturale non è mai solo linguistica. E il caso del counsel lo dimostra meglio di qualunque altro. Il problema non è tanto nell’uso dell’inglese quanto nella mancanza di trasparenza. Quando un titolo professionale non corrisponde a una funzione chiara e riconoscibile, si rischia di generare confusione. Per i clienti, che non sanno bene a chi si stanno affidando. Per i giovani professionisti, che non comprendono a quale traguardo aspirare. E per il mercato nel suo complesso, che fatica a leggere le dinamiche interne agli studi.
Il punto, quindi, non è “italianizzare” i titoli, ma definirli meglio. Se counsel deve essere una qualifica riconoscibile e autorevole, deve anche essere coerente, trasparente, dotata di un contenuto professionale e gerarchico preciso. Altrimenti rischia di trasformarsi in una foglia di fico: una parola affascinante, ma che serve più a coprire che a chiarire.
In un momento storico in cui gli studi legali riflettono sulla propria identità, sui modelli organizzativi e sulle carriere interne, forse è arrivata l’ora di interrogarsi anche sul linguaggio. Perché le parole – soprattutto quelle che definiscono ruoli e responsabilità – contano. Anche in inglese.
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