Prescrizione mai: i penalisti dicono “no”

Tra i tanti dibattiti sulle questioni legate al diritto penale, per loro natura tendenti a guadagnarsi ampi spazi nelle cronache, quello sulla riforma della prescrizione è uno dei più sentiti dall’opinione pubblica. Ne era di sicuro cosciente il Movimento 5 Stelle, che, dopo averne fatto uno dei punti centrali del programma di governo con cui ottenne la maggioranza relativa dei voti alle elezioni politiche del 2018, ha approvato a inizio 2019 la cosiddetta legge Spazzacorrotti (legge 9 gennaio 2019, n. 3), con l’appoggio della Lega.

La modifica all’art.159 del Codice penale contenuta nella legge stabilisce che il decorso del termine di prescrizione rimanga sospeso dal momento della sentenza di primo grado fino alla definizione del giudizio: essenzialmente, ciò ne rende impossibile la sopravvenienza nei processi d’appello e per Cassazione.

Le conseguenze immediate della riforma saranno, ad un primo esame, rilevantissime: come riportato dal Sole 24 Ore, sono quasi 30mila i processi che nel 2018 sono finiti in prescrizione dopo il primo grado, e che con la nuova normativa rimarrebbero potenzialmente in piedi, a congestionare ulteriormente i già sovraccarichi uffici giudiziari italiani.

Una delle tante ragioni dell’esistenza dell’istituto della prescrizione va ricercata, infatti, proprio nell’esigenza di controbilanciare e stemperare i rischi derivanti da un’eccessiva lentezza dei processi (purtroppo storicamente caratterizzante le corti nostrane); ebbene, con la nuova riforma non ci sarebbe più alcuno “spauracchio” per i giudici di perdere il lavoro già fatto in caso di inerzia.
Verrebbe poi, di conseguenza, a mancare una delle principali garanzie per i soggetti coinvolti in un processo penale, quella della ragionevole durata del processo: principio di rango costituzionale (ipotesi di incostituzionalità della riforma alla luce dell’art.111 sono già state avanzate, come vedremo, da molti addetti ai lavori), e per la cui violazione la Corte EDU ha già spesso sanzionato lo Stato italiano, costringendolo a mettere in piedi (tramite la legge 24 marzo 2001, n. 89, cd. legge Pinto) un procedimento per il risarcimento delle “vittime” di processi irragionevolmente lunghi.

La riforma rischia quindi di costare molto anche dal punto di vista strettamente economico. Tutto ciò senza nemmeno entrare nel merito degli innumerevoli problemi che potrebbe creare nella vita delle persone sottoposte a processo: chiunque abbia dovuto, almeno una volta nella vita, confermare di non avere procedimenti a carico per un colloquio di lavoro o un concorso pubblico può capire la pericolosità di un allungamento potenzialmente illimitato dei tempi processuali. Quasi del tutto univoche le voci degli operatori del diritto sentiti da MAG sulla questione.

«Non è cancellando la prescrizione dopo il primo grado di giudizio che si può affrontare il problema dei tempi della giustizia» commenta Vinicio Nardo (nella foto), presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano. «La riforma non risolve i problemi legati ai processi in corso e quindi non ha un effetto tampone sull’immediato: i suoi effetti si vedranno solo tra 5-10 anni, quando comunque inciderà su una percentuale minima di processi dal momento che, come tutti sanno, il 70% dei reati si prescrive prima della sentenza di primo grado. In questo modo si butta alle ortiche un principio di civiltà giuridica solo a fini demagogici».
Concorde il parere dell’avvocato Pasquale Annicchiarico, titolare dell’omonimo studio legale: «Ci troviamo ancora una volta di fronte a un testo legislativo figlio di contingenze storiche e di esigenze di comunicazione politica piuttosto che delle idee di un legislatore animato dal reale intento di migliorare il sistema giudiziario del Paese».

Secondo Annicchiarico l’eliminazione…

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