Perché la cancel culture è un rischio per gli avvocati
Avrete senz’altro sentito parlare di cancel culture. Una deriva che pretende di eliminare dalla memoria collettiva porzioni di passato che (a torto o a ragione) vengono considerate scomode, portatrici di messaggi socialmente scorretti, storicamente responsabili di deviazioni a cui oggi si vuol porre rimedio. La convinzione dei fautori di questa cultura della cancellazione è che eliminando alcuni “episodi” dalla lunga catena di fatti ed eventi che ci ha condotto fino a questo momento si riesca a ridimensionare o addirittura a estirpare piaghe come il razzismo, il sessismo, il bullismo, e proseguite voi con tutti gli ismi che detestate di più.
Una categoria che ha qualche difficoltà di relazione con il suo passato e che istintivamente cerca di ridimensionarlo, confinarlo in angoli nanascosti se non addirittura (in qualche caso) di rimuoverlo è quella degli avvocati. Non tanto rispetto alla storia della professione, che anzi è fatta oggetto di ampi studi e meritevoli ricerche, quanto alla cronologia delle organizzazioni legali che oggi hanno un ruolo preminente nel mercato.
Sembra strano, lo so. Viviamo un’epoca di infodemia legale e quindi com’è possibile che una sorta di cancel culture possa intaccare anche la comunicazione forense?
Gli avvocati, persino coloro i quali sono parte di strutture organizzate e titolari di un posizionamento di rilievo nel settore, fanno ancora fatica a percepire se stessi come soggetti pubblici, attori del sistema socio economico, rappresentanti di istituzioni professionali che derivano la loro autorevolezza e la loro credibilità non soltanto dalla magnificenza delle imprese presenti ma anche dalla esperienza, talvolta tortuosa (c’est la vie), delle loro vicende passate.
La rincorsa a una narrazione agiografica del passato è persistente. La tentazione di ridurre l’attività di elaborazione delle vicende a un semplicistico scurdammoce ‘o passato è diffusa.
Ma il rischio è che la scarsa conoscenza della storia di una struttura, indebolisca la cultura di studio che invece da molti, almeno in teoria, è additata come elemento essenziale per il buon funzionamento dell’organizzazione professionale.
La storia serve. Serve a sapere chi siamo. E ci aiuta a decidere cosa vogliamo diventare. E di conoscenza, al di là della retorica degli slogan, c’è sete.
Nel mio piccolo ne ho avuto conferma nel corso di quest’ultima estate.
Perdonate l’autocitazione, ma tant’è. Più di qualcuno tra i nostri lettori mi ha scritto che quest’anno ha portato in vacanza con sé il mio “vecchio” Avvocati d’Affari (2017, LC Publishing). Il racconto del decennio che ha cambiato in maniera radicale l’avvocatura d’affari nazionale si sta rivelando più utile adesso che quel passato, all’epoca illustrato ancora caldo, comincia a essere più rarefatto e distante. Del resto, sono tempi veloci, quelli che viviamo. Tempi in cui si dimentica in fretta.
Chi siamo? Se lo stanno chiedendo tanti avvocati. Cosa diventeremo?
Lo scenario in profondo mutamento del mercato dei servizi legali (preso tra i fenomeni della societarizzazione, della diffusione delle tecnologie legali e dei nuovi modelli organizzativi) richiede consapevolezza non naïveté. E questa consapevolezza si acquisisce attraverso la diffusione di una cultura storica della vicenda di mercato del settore. Un racconto che la pioggia di istantanee che oggi allaga la rete rischia di cancellare senza utilità.
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