Oppenheimer? Il legal thriller è una bomba
di giuseppe salemme
È ormai una figura divisiva quella di Christopher Nolan. Il regista di film come Inception, Il Cavaliere Oscuro e Interstellar è diventato punto di riferimento del moderno “blockbuster d’autore”: termine che identifica quei film ad alto budget che mirano ad attirare in sala il pubblico più ampio possibile, senza per questo attenuare la riconoscibilità dello stile del regista (e anzi, spesso sfruttandola il più possibile).
In effetti i film di Nolan sono in genere riconoscibilissimi. Storie bigger than life, narrazioni non lineari, tematiche adulte ma mai da bollino rosso, grandi cast. E a ben vedere, è proprio sul valore autoriale delle sue opere che fan e critici di Nolan si scannano a ogni nuova uscita. Volendo provare a riassumere i termini del dibattito, possiamo dire che i pro-Nolan lo osannano perché i suoi film sono ambiziosi, complessi, ricchi di pathos e di momenti d’effetto, e trattano temi abbastanza universali da attrarre al cinema un pubblico vastissimo. Per il detrattore medio invece, tutti i pregi sono in realtà dei difetti. La troppa ambizione diventa pretenziosità; l’eccessiva complessità rende i film lunghi e ricchi di didascalie (lo “spiegone”, inteso come la scena o il personaggio deputati unicamente a spiegare cosa vediamo, è un altro classico della casa); la ricerca a tutti i costi della battuta a effetto o del momento memorabile è innaturale ed estanuante; la volontà di piacere a tutti finisce per annacquare il film.
Con il suo nuovo lavoro, per di più, Nolan era chiamato a rifarsi dopo Tenet, il primo mezzo flop della sua carriera, in cui i 200 milioni di dollari di budget di produzione non erano bastati a rendere intelligibile un intreccio che ammassava insieme cospirazioni internazionali, alta finanza, terze guerre mondiali, concetti da fisici teorici come entropia e inversione delle linee temporali, oligarchi russi e palindromi latini (non è uno scherzo).
Ma con Oppenheimer il regista londinese torna a fare centro. Il film racconta la storia del padre della bomba atomica ripercorrendo piuttosto fedelmente una biografia del 2005 che inquadrava lo scienziato direttore del progetto Manhattan come un “American Prometheus”. Lavorare con una storia vera e con un budget più piccolo riporta Nolan a quello che il cinema di base dovrebbe sempre fare: raccontare una storia in maniera efficace, e quindi facendo sì che lo spettatore vi si possa immergere. Di fatto, Oppenheimer è un legal thriller. I processi, con il loro contraddittorio costante, sono ormai utilizzatissimi nei film per rendere giustizia a vicende realmente accadute in tutta la loro complessità (The Social Network di David Fincher insegna). In questo caso Nolan sceglie di mostrarne due: il primo, a porte chiuse, a colori; il secondo, una pubblica udienza di fronte al congresso degli Stati Uniti, in bianco e nero. Il contraddittorio processuale si riflette così nell’immagine: per distinguere il punto di vista soggettivo dalla storia oggettiva, come spiegato dallo stesso Nolan.
Oppenheimer potrebbe inizialmente lasciare smarriti per la quantità di personaggi a schermo o intimorire per le tre ore di durata. Ma le musiche onnipresenti e i dialoghi sempre serrati, sebbene forse presteranno il fianco ai critici più ostinati del regista, garantiscono al film un ritmo sempre sostenuto, sorretto dalle ottime interpretazioni di Gillian Murphy e Robert Downey Junior.
Chi lo vedrà in sala, specialmente nella pellicola Imax da 70 millimetri scelta appositamente da Nolan, difficilmente rimarrà deluso dall’esperienza. E il pubblico sta effettivamente premiando il lavoro del regista: il target simbolico del miliardo di dollari incassati in tutto il mondo è molto vicino. Mentre sono già superati i 910 milioni di dollari incassati da Bohemian Rhapsody nel 2018: un dato che fa già di Oppenheimer il biopic più redditizio della storia del cinema.
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