Marini Corea e Capelli impugnano la riforma delle popolari
Gli avvocati Francesco Saverio Marini (nella foto) e Ulisse Corea, dello studio legale Marini, unitamente al professor Fausto Capelli, hanno impugnato per conto di diversi soci e associazioni di azionisti di banche popolari (Banca Popolare di Milano, UBI Banca, Veneto Banca, Banco Popolare, Banca Popolare di Sondrio) le disposizioni regolamentari adottate dalla Banca d’Italia, in attuazione dei nuovi artt. 28 e 29 TUB, come modificati dalla riforma introdotta dal d.l. 3/2015. L’illegittimità dei provvedimenti, a detta degli avvocati, si fonda su numerosi vizi di illegittimità costituzionale della legge (già da più parti aspramente contestata, come noto, anche nel merito), con particolare riferimento alla parte in cui viene imposta (al di sopra della soglia di 8 mld di euro di attivo) la trasformazione della banca popolare in s.p.a. e viene prevista la limitazione del diritto al rimborso del valore della partecipazione in capo al socio che intenda recedere, secondo quanto stabilito con regolamento della Banca d’Italia. Con il ricorso, inoltre, viene chiesta al TAR la sospensione immediata dell’efficacia degli atti impugnati e la rimessione delle questioni di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.
LE RAGIONI DELL’INCOSTITUZIONALITÀ
Le norme impugnate, fanno sapere gli avvocati, «devono ritenersi incostituzionali, anzitutto, per la manifesta carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77 Cost. per l’emanazione di un decreto legge, essendo il decreto teso a risolvere problematiche di carattere strutturale e già note da molto tempo, per le quali dunque si sarebbe dovuto provvedere con strumenti diversi dal decreto-legge, e contenendo lo stesso previsioni non autoapplicative la cui attuazione e integrazione è demandata a successivi regolamenti della Banca d’Italia. Risultano inoltre violati gli artt. 70 e 77, comma 1, Cost., per violazione del principio di gerarchia delle fonti, là dove il d.l. conferisce alla Banca d’Italia il potere “in bianco” di adottare norme regolamentari anche in deroga alla legge, senza neppure predeterminare il novero delle disposizioni legislative suscettibili di deroga».
L’ESPROPRIO
Nel merito, osservano ancora i rappresentanti dei ricorrenti, «il d.l. viola gli artt. 3, 23, 41, 42 e 45 Cost., posto che l’obbligatoria trasformazione in s.p.a. (rispetto alla quale la banca ha le uniche alternative della riduzione dell’attivo entro il limite massimo di 8 mld o della liquidazione) comporta un vero e proprio illegittimo esproprio ai danni dei soci delle banche popolari, in tal modo privati di tutti i diritti e poteri connessi al modello popolare-cooperativo. Tale modello si caratterizza, come noto, per il voto capitario (per cui ogni socio ha un voto, indipendentemente dal numero di azioni possedute), per la presenza di un limite al possesso azionario e la previsione di un numero minimo di soci, tutti elementi che esprimono il carattere “democratico” della partecipazione». In aggiunta, prosegue l'”accusa”, la nuova disciplina consente di escludere o limitare senza limiti di tempo il diritto dei soci che intendano recedere al rimborso del valore della propria partecipazione, alle condizioni previste dalla Banca d’Italia con il regolamento oggi impugnato, la quale, a sua volta, in violazione dello stesso decreto legge, ha omesso di disciplinare tale limitazione rimettendone il potere alle stesse banche.
PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA
Il tutto, concludono i legali, «in palese violazione del principio di uguaglianza (art. 3), della riserva di legge in tema di imposizione di prestazioni patrimoniali (23) della libertà di iniziativa economica (41), del diritto di proprietà (42) e della garanzia costituzionale di promozione e protezione del modello cooperativo (45). Sono altresì manifestamente violati l’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che protegge il diritto di proprietà e gli artt. 16 e 17 della Carta europea dei diritti fondamentali (Carta di Nizza) che tutelano parimenti la proprietà e la libertà di impresa. Infine, l’incostituzionalità del d.l. deriva poi anche dalla irragionevolezza e arbitrarietà della soglia degli 8 mld di euro al di sopra della quale è imposta la trasformazione in S.p.A. (o, in alternativa, la riduzione dell’attivo o la liquidazione della banca)».