Lo studio è legale ma il nome è finito

Ogni epoca ha i suoi paradossi. Viviamo nell’era dell’intelligenza artificiale e della creatività a portata di algoritmo. Eppure, proprio in questo scenario, c’è un ambito in cui la fantasia sembra essersi arenata: la denominazione degli studi legali. Lo diciamo con ironia, ma anche con una certa consapevolezza – i nomi di fantasia per gli studi legali sembrano “finiti”. Non nel senso metaforico, ma in quello più crudo e aritmetico: le combinazioni ragionevoli tra “legal”, “lex”, “legis”, “law” e relativi prefissi (o suffissi, a seconda del gusto) si sono semplicemente esaurite. O quasi. Negli ultimi anni, soprattutto in seguito alla liberalizzazione della denominazione degli studi professionali, l’ingegno si è spostato dai cari vecchi (e chiari) cognomi degli avvocati alle formule astratte. Questione estetica, certo. E molto più spesso di realpolitik. All’inizio era una novità: evocare con un neologismo la missione dello studio, la sua modernità, il suo dinamismo, la sua proiezione internazionale. Ma oggi, il paesaggio è saturo e si fatica a distinguere un LegalTizio dal novello CaioLex*. Ogni nuovo nome suona come una variazione sullo stesso tema, un’eco indistinta che si distende nella Rete.

La verità (forse) è che le possibili combinazioni con queste parole non sono infinite, non lo sono mai state. Sono radici su cui si è voluto costruire un intero universo simbolico, ma i mattoni cominciano a scarseggiare. Le agenzie di naming si specializzano in studi legali, i brainstorming creativi si moltiplicano, così come le consultazioni con grafici e semiologi. Ma alla fine il risultato è sempre lo stesso: un nome che sembra già sentito. Ma c’è anche un’altra questione: molto più seria della ricerca dell’originalità. Questi nomi, molto spesso, non dicono nulla. Suonano bene, certo. Ma cosa raccontano davvero dello studio? Della sua storia, del suo approccio, della sua relazione con i clienti? Cosa ci dicono dei professionisti che sono all’interno di queste strutture, di coloro che le hanno pensate e che in esse hanno codificato un nuovo progetto professionale? Molto poco. Il rischio è che, cercando la modernità a tutti i costi, si finisca col cancellare la personalità. E se permettete, la cosa suona paradossale se fatta da una categoria che a ogni piè sospinto non fa che dire “Il nostro è un people business”. Forse è il momento di cambiare prospettiva. Di smettere di rincorrere combinazioni sempre più forzate e tornare all’essenza. Usare la denominazione non per derogare alla dimensione collettiva dell’azione professionale (tratto distintivo delle moderne organizzazioni), ma per essere riconoscibili. Non per aderire a una moda, ma per distinguersi davvero. Anche perché all’orizzonte c’è un nuovo spettro che si fa sempre più pericoloso. Quello delle sigle. Anche lì, nulla di nuovo. C’è chi ci ha già pensato. C’è chi ci ha già investito. C’è chi ha avuto uno straordinario successo. E chi, invece, è piombato in un nuovo anonimato. Oggi, il rischio è che il mercato venga invaso da sequenze di lettere non sempre ben congegnate che faranno assomigliare il settore dei servizi legali a un blob di codici fiscali dove la capacità acrobatica di pronunciare lo scioglilingua di vocali e consonanti incastrate con più o meno estro sarà cosa assai rara. Un po’ come il talento di scoprire chi si cela dietro ciascuna di quelle lettere che ai più non diranno nulla.

QUESTO ARTICOLO APRE IL NUOVO NUMERO DI MAG. CLICCA QUI E SCARICA LA TUA COPIA GRATUITA

*Se per ventura dovessero esistere uno studio CaioLex o LegalTizio, specifichiamo che non si tratta di un riferimento al loro nome, bensì di una soluzione retorica per dire studio Tizio o studio Caio…

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

SHARE