Lo Spuntino – Passione “crime”: perchè ci piace frugare nel torbido
di letizia ceriani
Delitti irrisolti, violenza efferata, indagini, dubbi. Il fitto sottobosco che abita all’interno della cronaca nera porta con sé una grande carica mediatica, specialmente oggi. I riflettori, da un anno a questa parte, puntano proprio “dove nessuno guardava”. Giornali, romanzi, saggi, programmi TV, e anche podcast. Molti – e pure troppi! – i canali dedicati al true crime, disponibili sulle più svariate piattaforme. Ne è un caso eclatante la narrazione sviluppata attorno al caso Elisa Claps, avvenuto 30 anni fa a Potenza. Sulla storia Pablo Trincia ha costruito un podcast, prodotto da Sky Italia e SkyTG24 e realizzato da Chora Media. Sulla stessa pista, è nata una docuserie di Sky, che uscirà nei prossimi giorni, mentre è già andata in onda una fiction Rai focalizzata sulla famiglia Claps.
Dietro al legittimo desiderio di svelare il mistero, di informare i lettori, e di rendere giustizia a un dolore che comunque non può essere inascoltato, c’è la tentazione di lasciarsi andare a quel particolare senso di inquietudine che la violenza e il trauma lasciano dietro di sé…quel brivido di orrore misto ad adrenalina e a curiosità. La materia intimerebbe più cautela. Rimane di certo strano comprendere appieno quale sia il fascino che i casi di cronaca nera scatenano in noi e che rimane vivo nel tempo.
Cerca di distaccarsi, riuscendoci, Stefano Nazzi, giornalista specializzato in cronaca nera pressocché da sempre, che ha fatto il boom con il suo podcast “Indagini”, prodotto da Il Post. Dal podcast è nato un libro, Il Volto del Male, che passa in rassegna una serie di casi mantenendo lo stile di racconto dell’autore: tornare all’essenzialità dei fatti, senza sensazionalismi e spettacolarizzazioni, ma attenendosi alla realtà delle indagini. Le puntate di Indagini non danno risposte, si attengono a quanto accade, ma aprono a grandi domande.
Dove sta il bene e dove sta il male? Che limite c’è alla malvagità umana? Che differenza passa fra spietatezza e follia? Lungi dall’aggiungere qualcosa alle tante e annose diatribe filosofiche sull’argomento, sarebbe interessante capire piuttosto che cosa porti lettori e ascoltatori a seguire assiduamente queste vicende, quell’istinto originario, legato al tessuto collettivo, che trascina in un’unica vicenda umana un senso di inquietudine condiviso dalle generazioni dall’inizio del mondo.
È la legge dell’attrazione: subiamo il fascino di ciò che temiamo e tendiamo a volerlo conoscere in profondità per, in qualche modo, controllarlo ed esorcizzarlo. Non è forse questo il concetto aristotelico di tragedia? In ogni delitto si celano le nostre più grandi paure, conoscendolo pensiamo di fare fuori il mostro, come se questo comportasse la risoluzione del male stesso.
Il problema si pone quando il male finisce con l’essere ridotto a puro intrattenimento, a espediente per vendere; dal fatto reale nasce il podcast, dal podcast il libro, dal podcast una miniserie, dalla miniserie il film. Stiamo assistendo a un’idolatria del genere, a un sovraffollamento e una sovraesposizione del true crime che porta sì a informarci di più su uno dei volti più tetri del reale, ma che crea, senza nessun ripensamento o senso di colpa, solo business.
Negli anni, c’è chi ha fatto notare come tra il crimine e la realtà vi sia una discrepanza di cui il giornalista deve tenere conto per non cadere nel tranello etico che lega indissolubilmente l’autore e la tragedia che va raccontando. E nessuno dice che questo sia semplice, ma il tentativo di recuperare l’eterno e catartico valore della tragedia che suscita pietà e umanità forse va fatto in modo più deciso…