Lisa Noja: «Ancora troppe barriere sui luoghi di lavoro»

di michela cannovale

Ero una bambina quando, nel 1997, la Mattel lanciò sul mercato Becky, la prima Barbie in sedia a rotelle. Erano passati sette anni dall’Americans with Disabilities Act, e la bambola più famosa del mondo mostrava per la prima volta ai bambini il concetto di diversità e inclusione. In due settimane furono venduti 6.000 esemplari. Chicago Tribune titolava così uno degli articoli più letti di quell’anno: “Doll in wheelchair brings real world to the barbie line”. Un sogno che durò poco, tuttavia. E cioè fino a quando ci si rese conto che Becky non poteva entrare nella favolosa Dreamhouse di Barbie perché l’ascensore della magica villa non era a prova di invalido: la carrozzina non ci stava.

Facciamo un breve salto temporale fino a oggi. Passiamo dalla “Casa dei sogni” al lavoro dei sogni (o quasi). Quanti passi in avanti abbiamo fatto in poco più di un ventennio? Alzi la mano chi, nel proprio ufficio, non vede ostacoli (le cosiddette barriere architettoniche) che rendono difficile o impossibile il passaggio e l’integrazione di persone con disabilità motorie, sensoriali o intellettive. Scalini, strade non opportunamente asfaltate, spazi stretti, pendenze, oggetti che sporgono. Gli ascensori, le scrivanie, i lavandini, le docce e i gabinetti… sono utilizzabili anche da lavoratori disabili? 

Numeri Andel del 2021 alla mano, nel nostro Paese è occupato solo il 35,8% delle persone con disabilità (a fronte del 50% in Europa). Circa un milione (su un totale di 3 milioni di persone disabili, secondo i dati Istat del 2019) risulta ancora disoccupato o in cerca del primo impiego.

Ne abbiamo parlato con Lisa Noja, a lungo avvocata prima di diventare capogruppo di Italia Viva nella precedente legislatura e attuale vicepresidente della Commissione Bilancio del comune di Milano per la sezione welfare e affari sociali. Il 9 gennaio scorso ha annunciato la sua candidatura come guida della lista del Terzo Polo a Milano a sostegno di Letizia Moratti in Lombardia. Si è detta pronta, in caso di vittoria, ad occuparsi di sanità. È da sempre affetta da atrofia muscolare spinale.

Come siamo messi in Italia?
L’accessibilità ai luoghi di lavoro è uno dei temi più complessi per chi soffre di disabilità. Con il Jobs Act è stata introdotta la figura del disability manager che dovrebbe aiutare le aziende a occuparsi di queste faccende. Di fatto, poi, i decreti attuativi che definiscono questa funzione ancora non esistono. Le imprese si gestiscono autonomamente. Quindi abbiamo da un lato grandi e moderni studi legali e professionali disable-frendly. Dall’altro, ci sono ancora troppe realtà più piccole inserite in edifici con gradini e accessibilità difficoltosa. Una questione, questa, che ancora una volta ci rende distanti anni luce dai paesi anglosassoni dove – proprio grazie al già menzionato Americans with Disabilities Act, ndr – esistono regole chiare e stringenti che stabiliscono due principi chiave: il primo è che ogni volta che viene ristrutturato un pezzo di un immobile (compresi i tavolini dei bar) questo deve essere reso accessibile a tutti; il secondo è che, se il primo principio non viene rispettato, si parla di discriminazione e scattano le sanzioni. È così: è considerato discriminante impedire ad una persona di accedere ad uno spazio pubblico.

Perché non succede lo stesso anche in Italia?
Di certo tutto questo da un lato si lega al fatto che negli USA la lotta per i diritti civili si è focalizzata molto sulle persone con disabilità. Anche se…

PER PROSEGUIRE LA LETTURA CLICCA QUI E SCARICA LA TUA COPIA DI MAG

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

SHARE