L’inglese ha cambiato la grammatica dell’Avvocatura. Però, c’è un però…

di nicola di molfetta

Sono tempi strani, quelli che stiamo vivendo. Tempi di crociate e battaglie di principio. Tempi di fumo negli occhi e poca sostanza. Così, anche la possibilità che, prossimamente, una legge dello Stato possa arrivare a punire con multe da 5mila a 100mila euro chi, nella Cosa Pubblica, utilizzi inglesismi al posto dell’italiano, è diventato immediatamente uno dei temi di discussione preferiti durante le conversazioni da bar di tutto lo Stivale.

La questione, tuttavia, a noi che lavoriamo con le parole e ci occupiamo d’informazione, è sembrata decisamente gustosa soprattutto se, in un futuro immaginario e distopico, dovesse imporsi anche nella sfera privata della vita del Paese, nell’impresa e, perché no, nelle professioni, a cominciare dall’avvocatura.

Negli ultimi trent’anni, infatti, il settore, soprattutto sul fronte di quella che viene definita attività stragiudiziale, è stato letteralmente invaso da un nuovo lessico importato dalla terra della “perfida Albione”, complice, ovviamente, la calata di decine di insegne dell’avvocatura d’affari internazionale, a seconda dei casi, di matrice inglese o americana. 

Queste moderne invasioni barbariche hanno avuto il merito storico di cambiare radicalmente la grammatica della professione nel Paese. Le parole hanno un potere straordinario e, in questo caso, sono riuscite a traghettare l’avvocatura italiana, un tempo così affezionata al suo latinorum e a una tradizione artigiana dell’esercizio della professione, nella modernità del mercato dove gli studi legali sono diventati organizzazioni, le gerarchie interne ad essi si sono affinate andando oltre l’elementare dicotomia servo-padrone, e le competenze laterali e di relazione sono diventate importanti tanto quanto le conoscenze tecniche di austera matrice accademica.

Insomma, l’inglese non si è imposto solo come lingua moderna dell’avvocatura (in particolare d’affari) ma è stato anche un agente contaminante della sua evoluzione culturale.

Però, come si dice in questi casi, c’è un però. Anzi ce ne sarebbero parecchi. Perché se è vero che l’adozione di un lessico internazionale ha rappresentato la spinta all’innovazione del settore, è anche vero che il profluvio di termini che in tanti, ancora oggi, fanno fatica a decodificare è diventato la scorciatoia grazie alla quale i più scaltri attori di questo mercato hanno cambiato tutto per cambiare molto poco. 

Gli avvocati d’affari, che non hanno mai amato essere identificati come tali, si sono ribattezzati business lawyer. Le organizzazioni in cui operano sono diventate law firm. I professionisti da esse impiegati sono stati raggruppati in sottoinsiemi rispondenti ai titoli di partnerof counselassociate e trainee, a cui, in tempi più recenti si sono aggiunti quelli di counsel, director, lawyer e attorney. Il lavoro è stato organizzato prima per practice. Poi qualcuno ha visto la luce, ha capito tutto, e ha cambiato il mondo occupandosi di industry. Quindi la mission dello studio è diventato il purpose. Le persone sono diventate people. La gestione management. I capi, head.

Infondo, si dirà, è stata solo una questione di sostituzione terminologica. Non proprio. Perché, come gli abili manipolatori delle tre carte, in molti hanno cominciato a giocare con i nomi. A distinguere senza ben chiarire. A battezzare senza che, da questa risciacquatura nell’Arno gergale della professione, nascesse una vera nuova classe professionale. Perché a ben guardare non tutte le law firm sono tali, così come non tutti i partner sono soci o gli associate avvocati. Molti trainee non sono praticanti e alcuni of counsel non sono sempre dei consulenti. Poi, per complicare il tutto si ricorre agli aggettivi: junior e senior, parole latine rigorosamente pronunciate all’inglese e liberamente associate a molti dei termini già citati rischiando l’ossimoro (come quando si parla di junior partner) o il ridicolo (come quando si indica un senior trainee). Cos’è un managing associate? Cosa distingue un counsel da un of counsel? E che differenza passa tra un lawyer e un attorney. Se all’esame di Stato si facessero anche queste domande il tasso percentuale di bocciati salirebbe a dismisura con ogni probabilità. Anche se (o proprio perché), a ben guardare, nell’italiese legale non esiste una definizione univoca per tutti questi termini.

L’inglese, nella professione forense in Italia, ha contribuito a creare un antilingua che spesso nemmeno gli addetti ai lavori riescono a decodificare. Perché quando si usano parole esotiche assegnando loro un significato diverso da quello originario, si finisce con l’attribure loro un senso che va oltre il confine dell’etimologia e si presta a un utilizzo di comodo. Utile alla gestione dello studio, anzi, al management.

Ricordo ancora la risposta che, qualche anno fa, l’ex socio di una (vera) law firm internazionale, mi diede quando gli chiesi perché aveva chiamato il suo studio con il suo cognome seguito da & Partners, nonostante lui di partner (nel senso di soci) non ne avesse nemmeno uno. «Semplice – mi disse – tengo contenti i collaboratori più anziani che così hanno un biglietto da visita di cui andar fieri». «Ma come è possibile – insistetti – partner non vuol dire socio?». «Ti sbagli – mi rispose – partner, in italiano, non vuol dire un cazzo».

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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