Legal design, riprogettare l’esistente

Se la comunicazione è ormai diffusamente riconosciuta come una delle principali leve di vantaggio competitivo a disposizione degli avvocati, la questione del legal design rappresenta una frontiera che a detta di molto potrà contribuire in modo determinante a ridisegnare la leadership nel settore stravolgendo le gerarchie attuali. MAG ne parla con Federico Fontana, un intellettuale della professione forense, consulente specializzato in legal project management e uso del linguaggio.

Per lui il legal design è una pratica «transdisciplinare. È la confluenza di molteplici conoscenze, esperienze e competenze (diritto, scienze della comunicazione e del linguaggio, scienze cognitive, design, grafica, tech, forse altre). Questi saperi si mescolano e a loro volta generano una nuova disciplina. Ma la reggente resta il linguaggio. La vera innovazione passa sempre da lì».

Torniamo a parlare di linguaggio legale. Il tema del momento è il legal design: perché?
Viviamo un’epoca in subbuglio e confusa. Si percepisce voglia e volontà di cambiamento, in tutti i settori, persino in quello legale. Questo sconvolgente anno COVID ha senz’altro acuito la spinta a ripensare anche il modo di lavorare: le persone hanno iniziato a fare le cose in modo un po’ diverso e forse (un po’) migliore. Il Legal Design (LD), nella sua valenza concettuale più alta, è questo: una possibilità di ri-progettazione dell’esistente, applicata al mondo delle professioni legali. Il fatto che poi persino un “prodotto legale” possa essere bello-perché-utile, rivoluziona la prospettiva.

Potenzialmente una rivoluzione copernicana, capace di cambiare la percezione della materia…
Si sa. Nell’immaginario collettivo le faccende legali sono noia polverosa per addetti ai lavori. Oggi c’è la possibilità di cambiare questa percezione e talvolta realtà. Anche la modalità di comunicazione è diversa: non più one-to-one (di solito avvocato-avvocato o avvocato-giudice e viceversa), ma one-to-many (da avvocato/giudice/funzionario amministrativo a tutti i potenziali users, es. cittadino, consumatore, cliente). Pensiamo poi ai benefici per la collettività se un giorno il Legislatore si risvegliasse Legal Designer e ne applicasse logiche e metodi per semplificare il nostro sistema normativo. Disboscare la selva oscura dei decreti COVID, per citarne una nota a tutti, è però al momento solo science fiction.

Il legal design nasce da una forte e nobile spinta etica…
Il LD nasce in California per agevolare l’accesso alla Giustizia per le categorie sociali meno abbienti e meno favorite. Poi però è entrato rapidamente anche nel mondo del business. In azienda tutto è quick-short-visual (forse con la sola eccezione di Amazon: questo è uno dei case study a contrario che uso spesso nei miei seminari e lezioni). Il che, tradotto in azione, diventa agile-semplice-efficace. Oggi vi sono corsi di Design Thinking in molte Business School, inclusa la Bocconi a Milano (“Creatività e rigore al servizio dell’innovazione” è il claim su loro sito) o la INSEAD a Parigi/Fontainebleau (il claim qua è: “Cultivate Creativity and Develop the Design Mindset”). Grazie al LD insomma, la creatività fa il suo ingresso anche nel mondo legale e può finalmente esser riconosciuta e praticata dal giurista per aiutarlo a risolvere problemi, vecchi e nuovi. Con la Scuola Holden a Torino, insieme ad un pubblicitario, un regista e uno scrittore, abbiamo costruito un corso su scrittura legale e legal design che partirà a metà ottobre. L’obiettivo è provare a rispondere al bisogno di creatività del giurista.

Proviamo a capirci qualcosa di più: è solo una questione estetica e di forma?
Rispondo con le parole di Bruno Munari, forse il più grande designer italiano: “il designer lavora prima di tutto con la logica e non con l’estetica: se un oggetto è bello, è perché è, prima di tutto, buono per l’uso…fantasia e ragione sono collegate per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile”. Tracciata la rotta, procediamo ora a ritroso, cioè partendo dalla fine.

Prego…
In parte è vero, ha ragione, il momento di “contatto” con lo user è diverso. Tecnicamente la chiamano UI (User Interface) anche per distinguerla dalla UX (User Experience) di cui costituisce complemento e terminale. Usando la metafora della volta della Cappella Sistina (non a caso, trattandosi di “teologia visiva”), la User Experience è tutto l’affresco, mentre la User Interface sono le due iconiche dita che si toccano nel particolare della Creazione di Adamo. Di nuovo il lessico arriva dall’informatica. Pensiamo all’orribile parola “interfaccia”. Mi son sempre chiesto: ma la faccia, non bastava? No, a ben pensarci. Perché è vero che ci si parla guardandosi in faccia. Ma qui quello che conta è l’inter… cioè la faccia deve essere la stessa, sennò i due terminali non comunicano.

D’accordo, ma tutto questo, che relazione ha col mondo legale?
Prendiamo il CONTRATTO e togliamoci la R. Dentro scopriamo che c’è il CONTATTO, cioè come prima cosa si deve sempre e necessariamente stabilire una relazione con l’altro. Per scambiarsi informazioni, per approfondire il reciproco interesse a far qualcosa insieme, per consentire un dialogo, per negoziare e alla fine forse arrivare sottoscrivere quello specifico patto. L’essenza della user-centricity è tutta qua….

PER PROSEGUIRE LA LETTURA DELL’INTERVISTA CLICCA QUI E SCARICA GRATIS LA TUA COPIA DI MAG

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

SHARE