Law firm in Italia. Quando tutto cominciò, con Baker McKenzie, 60 anni fa

di nicola di molfetta

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Sessant’anni di attività in Italia. Baker McKenzie è la law firm più longeva nel Paese. Lo “sbarco” dello studio di matrice americana nel 1962 a Milano, rappresentò un’iniziativa pionieristica che si inseriva in un progetto che all’epoca non aveva precedenti: dare vita alla prima multinazionale del diritto a livello globale. E in questo disegno strategico, la presenza nella Penisola non poteva essere trascurata. Quella era l’Italia che aveva rialzato la testa dopo gli anni della ricostruzione. Una nazione che si preparava a diventare una delle principali economie mondiali e che avrebbe attirato investimenti anche dall’estero. In particolare, dagli Usa.

“Segui i tuoi clienti”. Fu questa la strategia che condusse lo studio a mettere un primo piede nello Stivale (sei anni dopo sarebbe arrivata anche una sede a Roma) in una stagione in cui ancora non era chiaro in che modo una realtà internazionale avrebbe potuto operare nel mercato dei servizi legali locale.

«Gli anni ’60 in Italia furono un’epoca straordinaria – dice in questa esclusiva intervista a MAG, l’attuale managing partner di Baker McKenzie Italia, Francesco Pisciotta –. Una volta completata, negli anni ’50, la sommaria ricostruzione di quanto distrutto dalla Seconda guerra mondiale, grazie anche ai cospicui aiuti del Piano Marshall, l’Italia si era avviata alla sua grande trasformazione economica, da Paese essenzialmente agricolo a nazione industriale. Sull’onda di tale trasformazione, e nell’ambito della collaborazione fra paesi europei che aveva determinato la formazione della CECA prima e successivamente della Comunità Europea, l’Italia beneficiò di un rilevante flusso di investimenti dagli Stati Uniti. Baker McKenzie si inserì in questo flusso, inizialmente e per lungo tempo a servizio essenzialmente degli investitori statunitensi nel nostro Paeseۛ».

Pisciotta racconta quei giorni come se li avesse vissuti. In realtà, nel 1962, l’attuale managing partner di Baker McKenzie non era nemmeno nato. Tuttavia, sottolinea, «ho avuto il privilegio di conoscere e imparare dai nostri fondatori. Teniamo molto a tramandare alle nostre persone la storia dello studio e a rafforzare la nostra identità».

Quale fu la prima sfida per lo studio? 
Come tutti i pionieri, i nostri fondatori dovettero confrontarsi innanzitutto con il contesto regolamentare dell’epoca. A quei tempi non era chiaro se l’attività legale intesa come stragiudiziale potesse essere svolta in Italia da chi non fosse iscritto nell’albo avvocati, per la cui iscrizione era necessaria la cittadinanza italiana. Per questo l’attività fu inizialmente aperta istituzionalmente come “Studio De Libero – Camilli”, dai nomi dei due fondatori, mentre nei rapporti con i clienti si sottolineava l’appartenenza al network Baker & McKenzie.

Come si posizionò inizialmente?
Lo studio fu subito uno dei principali punti di riferimento della clientela soprattutto statunitense che intendeva investire in Italia. All’epoca, la quasi totalità degli studi legali locali era dedicata pressoché esclusivamente al contenzioso e anche quelli che trattavano operazioni stragiudiziali lo facevano in modo tradizionale, senza avvalersi delle tecniche di contrattualistica internazionale che, in quel momento, erano state sviluppate essenzialmente negli Stati Uniti. La clientela fu quasi esclusivamente straniera, anche perché quella italiana, per questo tipo di attività, era abituata ad avvalersi dell’opera di dottori commercialisti.

La novità principale era la capacità di lavorare in inglese?
Il nostro punto di forza fu quello di offrire una tipologia e un complesso di servizi di cui gli studi tradizionali non disponevano.In primo luogo, la capacità di trattare (e scrivere) in lingua inglese che, all’epoca, ben pochi parlavano in Italia. Questo era un aspetto tutt’altro che trascurabile: gli studi legali statunitensi avevano cercato di seguire i flussi di investimenti all’estero dei propri clienti aprendo uffici in Europa ed inviando a gestirli legali statunitensi (gli “expatriates”) che erano certamente esperti delle tecniche contrattuali statunitensi, ma non del diritto e delle consuetudini dei Paesi in cui operavano. Un noto banchiere milanese dell’epoca con riguardo all’assistenza legale in campo internazionale usava commentare che: “Purtroppo, gli avvocati che conoscono il diritto non parlano l’inglese, mentre quelli che parlano l’inglese non conoscono il diritto”.Baker McKenzie sparigliò anche da questo punto di vista. In che modo?
L’intuizione…

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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