LA QUESTIONE PREVIDENZIALE E LE RAGIONI DEI “SELFIESTI”

di nicola di molfetta

La questione previdenziale sta infiammando l’avvocatura. La campagna di selfie con hashtag #iononmicancello ha invaso i social network (leggi l’articolo). Lo scontro è partito dalla ribellione ai cosiddetti “minimi” che da quest’anno ogni avvocato che voglia rimanere iscritto agli albi deve versare alla Cassa forense. Anche nel caso in cui, durante l’anno, l’avvocato in questione non abbia fatturato nemmeno un centesimo.

La questione è molto più complessa di quello che può apparire. In essa si concentrano e manifestano anni e anni di tolleranza delle istituzioni verso i furbetti che lavoravano in nero, le difficoltà dei giovani professionisti a entrare nel mercato, la crisi che ha messo in ginocchio molti avvocati che si ritrovano a incassare meno di quanto non debbano versare all’ente previdenziale e l’annosa questione dell’insostenibilità di un sistema basato fondamentalmente sul criterio retributivo e non su quello (più sostenibile ed equo) contributivo.

Ma la domanda che questa protesta suscita, alla fine, è ancora più radicale: è giusto eliminare d’imperio da un albo professionale un soggetto “reo” di non versarsi i contributi? Ecco, il tema è rilevante per due ragioni. La prima è che questo tipo di sanzione non è prevista in nessun’altra legge professionale. Il punto è che se un professionista non paga la previdenza di categoria, si suppone che lo faccia perché non può, non perché non voglia. E qui veniamo alla seconda ragione: questo effetto del mancato adempimento dei propri doveri previdenziali non sembra essere stato pensato tanto per garantire a tutti i legali italiani un futuro pensionistico dignitoso (anche perché chi dovesse versare solo i minimi per tutta la vita lavorativa si troverà a percepire un assegno da poche centinaia di euro) quanto, a ben guardare, per sfoltire gli albi. La sensazione, infatti, è che la previsione della nuova legge professionale non guardasse tanto alla questione sociale della categoria, ma cercasse piuttosto di risolvere di sponda il problema del sovraffollamento.

E cosa c'entra la questione dei contributi con il sovraffollamento, vi chiederete? Per una parte dei 250mila avvocati italiani, il raggiungimento della sussistenza sul mercato è reso possibile anche dalla morosità previdenziale o dallo svolgimento di una parte dell’attività in nero. Questo ha creato un sottobosco togato che, anche se non in maniera esplicita, è stato preso di mira dal legislatore intento a colpire una categoria che (a torto o a ragione, non è qui che vogliamo discuterne) è stata lungamente considerata tra i responsabili del cattivo funzionamento del sistema Giustizia. Il punto è che, i provvedimenti di sponda quand’anche riescano a colpire l’obiettivo desiderato, rischiano di abbattere una serie di altri soggetti che nulla c’entrano con il problema che non si è voluto affrontare di petto.

Ed è questo che sta succedendo. Si è finito con il colpire soprattutto i giovani professionisti. Quelli che si ritrovano a dover anticipare le spese previdenziali ancor prima di cominciare a lavorare (e guadagnare). Un controsenso così evidente da rasentare il paradosso. Cosa chiedono i promotori della campagna #iononmicancello? In una parola: equità. Che il sistema previdenziale sia attento alle esigenze dei giovani avvocati e in generale degli avvocati con redditi bassi, colpiti anche dalla crisi. Solo per fare un esempio: si ha idea di quanto tempo capiti di dover aspettare prima di incassare una fattura per gratuito patrocinio? Possono passare anche anni.

Come abbiamo già scritto, che ci debba essere un’avvocatura (anche) per censo ovvero una categoria in grado di stare sul mercato e che il fare l’avvocato sia una condizione imprescindibile per chi voglia essere avvocato ci sembra sacrosanto. Tuttavia non possiamo non evidenziare che la questione previdenziale esplosa in questi giorni mostri il volto di uno scontro generazionale dal quale i giovani rischiano di uscire sconfitti a tavolino a causa di regole scritte dagli anziani a capo della corporazione.
Una riforma vera della Cassa forense è sempre più urgente. Il passaggio dal retributivo al contributivo è quanto mai necessario. La mutualità che ispirava la gestione dell’ente nel passato è divenuta insostenibile e, contrariamente alle sue ragioni ispiratrici, rischia di penalizzare i soggetti più deboli scontentando allo stesso tempo i più forti (si legga anche AVVOCATI, SOLO IL 10% è “SOLIDALE” sul numero 22 di Mag).

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