La pratica forense smart? È possibile
di giuseppe salemme
Uno dei danni “di riflesso” causati dalla pandemia è l’aver reso divisivo il concetto di lavoro agile. Prima di essere costretti ad adottarlo, molti manager erano soliti usare le parole “smart working” anche semplicemente per sentirsi giovani, appealing e in linea con i trend, con poca vera coscienza di cosa comportasse all’atto pratico. Ed eccoci invece oggi, dopo un anno di lockdown sparsi, con due schieramenti che si dividono abbastanza nettamente tra chi grida “mai più”, reputando insostituibili la vicinanza fisica tra colleghi e la socialità del luogo di lavoro, e chi invece benedice la flessibilità del lavoro da remoto.
Gli avvocati non fanno certo eccezione a questa regola. Anzi, alla base delle argomentazioni di molti “critici” dello smart working nella categoria forense c’è l’annosa questione praticanti. Come possono un avvocato in erba o uno studente prossimo alla laurea imparare i segreti della professione in mancanza del contatto diretto con il loro dominus? Quanto saranno motivati a dare il loro meglio in assenza del feedback diretto di un avvocato più anziano? Quanti di loro, da remoto, potranno effettivamente dimostrare la loro bravura abbastanza da guadagnarsi un posto nello studio?
MAG ha voluto porre queste legittime e importanti domande all’avvocato Francesco Portolano, partner fondatore dello studio Portolano Cavallo: una realtà professionale che sicuramente non condivide gli scetticismi sul lavoro da remoto. Tant’è che i loro programmi di stage e pratica forense sono andati avanti in full remote senza problemi, nonostante la pandemia. Le chiavi di questo successo? La cultura aziendale, abituata al lavoro da remoto da tempo. L’attenzione verso i praticanti. E, forse, la consapevolezza di fondo che molte delle criticità riscontrate sono da ricondurre alle limitazioni della pandemia più che allo smart working in senso stretto.
Avvocato Portolano, dopo un anno di pandemia gli avvocati fanno la conta tra chi è tornato in studio e chi continua a lavorare da remoto. Qual è la situazione nel vostro studio?
Noi abbiamo adottato l’approccio di massima prudenza, fin dalle prime avvisaglie dell’arrivo del virus: lavoriamo quindi al 100% da remoto dal febbraio 2020.
Eravate pronti ad una scelta del genere o ci sono state difficoltà?
Il nostro modello prevedeva già il lavoro a distanza, quindi abbiamo potuto fare questa scelta con serenità: in generale, non abbiamo mai creduto nella stretta indispensabilità di lavorare con chi è nella scrivania affianco. E infatti tutti avevamo già gli strumenti e la cultura aziendale necessaria a lavorare tranquillamente da remoto.
Anche i praticanti e gli stagisti?
Sì. Io vivo a Milano e ormai da anni molti dei praticanti con cui lavoro vivono a Roma, per fare un esempio. E i nostri programmi di stage pre-laurea e di pratica forense sono andati avanti anche durante la pandemia: attualmente abbiamo in stage otto laureandi, unitamente a otto praticanti, di cui due hanno cominciato a pandemia in corso.
Come sta andando?
Lavorano tanto e bene. In questo lasso di tempo una delle stagiste si è anche laureata ed è stata confermata come associata. Certo, per la prima volta siamo stati nella totale impossibilità di vederci fisicamente, cosa che in condizioni normali è sempre possibile. E infatti vanno prese misure apposite per sopperire a questa mancanza di interazioni informali e socialità a cui siamo stati costretti.
Ad esempio?
Ogni stagista o praticante ha un tutor: un collega junior a cui fare riferimento in quanto responsabile. Cerchiamo di organizzare quanti più momenti informali tra i collaboratori per permettere di avere interazioni anche non strettamente lavorative. Talvolta anche semplicemente preferire una telefonata a uno scambio di email può essere utile. Insomma, serve affirmative action per colmare il deficit. Dire “va bene, da lunedì cominci lo stage e sei in remoto” non è sufficiente.
Quindi un “gap” c’è…
È ovvio che…