La crisi secondo Caliceti
Una guerra in piena regola. Che anche senza vere e proprie armi ha lasciato dietro di sé numerose vittime. E ha stravolto il mondo che conoscevamo. La crisi economica dura ormai da sette anni e, nonostante sia ormai al giro di boa, continua a lasciare profonde e indelebili cicatrici sul nostro tessuto sociale, influenzando il futuro di intere generazioni e il destino di molte categorie professionali, compresa quella dei legali. Lo sa bene l’avvocato Luca Pugliatti, il protagonista de “L’ultimo cliente”, il primo romanzo scritto da Pietro Caliceti (nella foto), partner dello studio Santa Maria, edito da Baldini & Castoldi e in libreria dal 21 gennaio prossimo. L’avvocato Pugliatti, infatti, dopo anni vissuti a lavorare in proprio, in pochi anni si vede portar via dalla crisi tutto ciò che ha, dai clienti ai suoi collaboratori, fino alla stessa voglia di vivere.
A restare sono soltanto il mutuo da pagare e una moglie e due figlie a carico. L’incontro con il vecchio amico Galli, imprenditore indebitato fino al collo e in cerca di aiuto, gli ridarà qualche speranza. Ma gli effetti della crisi, talvolta perversi, sono diventati vere e proprie patologie che hanno finito per corrompere l’intero sistema. Riuscire a lavorare e a ritagliarsi il proprio spazio in questo contesto è sempre più difficile, anche per un avvocato come Pugliatti, diligente e determinato, o per un imprenditore come Galli, motivato e fiducioso.
«La crisi – spiega Caliceti in questa intervista a Mag – ha pesato tantissimo sui nostri clienti, che non sono più in grado di pagare le parcelle, e di conseguenza anche su noi avvocati, tanto che oggi molti professionisti faticano perfino a pagare la tassa di iscrizione all’ordine». Questa crisi, evidenzia l’autore, è stata come «una guerra», ha generato «malumore e disperazione diffusi, che si percepiscono tutto intorno e diventano evidenti con i suicidi di imprenditori strozzati dai debiti, e ha cancellato il futuro della mia e di molte altre professioni».
Perché ha voluto scrivere questo libro, avvocato?
Innanzitutto perché sono un grande appassionato di gialli e mi piaceva l’idea di contribuire raccontando una storia che si avvicini molto alla nostra realtà quotidiana. Soprattutto, però, volevo dare voce alla disperazione provocata dalla crisi. I personaggi e la vicenda in sé, infatti, sono puramente inventati ma il contesto è assolutamente reale. Ad esempio una frase che nel libro dice il praticante del protagonista me la sono sentita dire io stesso dal mio praticante. E poi volevo lasciare una testimonianza, affinché i nostri figli capissero cosa ha passato la nostra generazione.
Secondo lei, per quale motivo la crisi ha colpito così tanto gli studi legali?
Perché ci ha portati in una situazione di dumping totale e ferocissimo. I clienti chiedono sconti sempre più pesanti sulle parcelle e fuori è pieno di avvocati che lavorano in perdita.
E sono molti i professionisti che non possono permetterselo…
Un avvocato può giocare al ribasso della parcella solo se ha le spalle coperte, altrimenti come si fa ad andare avanti? Mentre i grandi studi nel corso degli anni si sono costruiti delle riserve di ricchezza, dei polmoni finanziari che hanno consentito loro di tirare avanti anche in condizioni come quelle imposte dalla crisi, i piccoli sono stati i primi a saltare. Il mercato legale è stato strangolato dagli studi che lavorano in questo modo e che hanno scalzato le boutique.
Come si è evoluta la professione legale durante la crisi, secondo lei?
Direi che si è involuta, piuttosto. Sta diventando sempre di più una specie di commodity che in futuro potrebbe portare gli studi ad appiattirsi e a optare a un modello di business più simile a quello delle società di revisione che a quello dei grandi studi del passato. Del resto negli Stati Uniti è già così.
Ma il mestiere dell’avvocato è ancora considerato prestigioso…
Prima il professionista era visto come una sorta di luminare, aveva un rapporto personale con il cliente importante. Negli anni però la professione ha perso molto della sua sacralità e la crisi ha portato a far scegliere gli avvocati in base al prezzo. Oggi non c’è posto per la creatività e la passione, e questo a scapito della redditività.
Allora non c’è più spazio per crescere?
Di spazio ce ne sarà sempre, perché se uno fa questo mestiere significa che ha passione e voglia di studiare. Se è bravo gli verranno sempre delle belle idee, però non saranno più premiate e non faranno più la differenza come in passato. Prima c’era più soddisfazione nell’essere bravi a stipulare un contratto, a gestire una trattativa, a essere veloci. Era appassionante, un po’ come giocare a scacchi. E quando vedevi il cliente soddisfatto era bello…
Era?
Lo è ancora, però molto di meno, è un piacere fine a se stesso. Il lato economico, per forza di cose, ha preso il sopravvento.
Come siamo arrivati a questo punto, secondo lei?
….
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