Jacchia: «Oggi è fondamentale essere percepiti»

di nicola di molfetta

Tempo di rebranding. Lo studio legale De Berti Jacchia ha da poco ufficializzato la nuova versione del proprio marchio. Un’operazione di ammodernamento dell’immagine che però ha cercato di andare oltre il semplice fatto estetico.
Nel brand sono rimasti solo i primi due nomi che compaiono nella ragione sociale dello studio e che sono, come noto, riferiti ai quattro soci fondatori: De Berti Jacchia Franchini Forlani. In più, la nuova grafica ha assunto una caratterizzazione cromatica, per metà rubin red e per metà blu, finalizzata a farla risaltare nella nuvola più o meno variopinta e più o meno variegata, dei brand legali che hanno un ruolo all’interno del settore della consulenza d’affari in Italia.
Operazione non semplice ma che dopo un anno di lavoro sembra aver
centrato il punto.
Ma non è stato solo questo. La release della nuova insegna di studio si è accompagnata a un lavoro di racconto che punta a far risaltare l’identità di questo studio presente sul mercato da 43 anni mettendo in evidenza i suoi tratti distintivi. Ciò che, in qualche modo lo rende diverso dai tanti concorrenti (italiani e internazionali) che, nel frattempo, hanno affollato il settore.
MAG ne ha parlato con il senior partner Roberto Jacchia, alla vigilia del rilascio del nuovo brand, operazione coincisa con la messa online anche del nuovo sito.
«Il rebranding – dice l’avvocato – si è legato alla riconcezione del sito. Lo abbiamo ridisegnato interamente nella grafica, nei contenuti e negli aspetti cromatici. Ma soprattutto, sono cambiati gli obiettivi di comunicazione».

Il sito non si limita a essere il biglietto da visita online dell’associazione professionale (che oggi conta 80 professionisti, tra cui 25 soci e un fatturato stimabile attorno a 15 milioni di euro, senza un centesimo di debito). Ma ne racconta l’ethos, pubblicando in una
sezione apposita la Carta dei Valori dello studio entrata in vigore a Luglio 2017 (21 articoli che includono anche una norma sul whistle blowing, strumento concepito per tutelare lo studio, ma anche i singoli soci, collaboratori e dipendenti in caso di conflitto di interessi o comportamenti che violino i principi della Carta) e “aprendo” lo studio al mondo.
«Volevamo andare oltre l’autoreferenzialità tipica dei siti web di questo tipo – spiega Jacchia – e così abbiamo immaginato, oltre alle sezioni che descrivono chi siamo, in quali aree operiamo e in quali industry, anche una sezione chiamata globally minded, in cui raccontiamo ai nostri clienti e a chiunque sia interessato alcuni trend in quattro grandi settori (sostenibilità, mobilità, connettività e società, ndr) che, a nostro giudizio, hanno un impatto particolare sul contesto socio economico in cui viviamo».
A ben osservarla si ha chiaramente l’idea di un’operazione identitaria. «In un seller market, il tema del brand non si poneva proprio. Ora, invece, bisogna essere percepiti – dice Jacchia -. È cambiato tutto. È cambiato il linguaggio. Si è ridotto il livello di attenzione al tuo messaggio. I 140 caratteri reggono i destini del mondo. Ci vogliono cose immediate e facilmente percepibili e noi abbiamo cercato di adottare una grafica diversa dai principali competitor per agganciare l’attenzione e creare in chi ci vede una curiosità per guardarci un po’ di più e volerne sapere un po’ di più».

E la vostra è una storia da raccontare. Anche perché siete passati attraverso tutte le stagioni che hanno segnato questo mercato negli ultimi 40 anni…
La nostra è una storia che parte da lontano. Nel 1975 noi fondatori siamo usciti da Graziadei e abbiamo dato vita al nostro studio.

Era una delle insegne più rilevanti …
Non solo. Direi che era anche una delle poche, assieme a Pavia e Ansaldo, insegne legali italiane veramente internazionali.

Beh c’erano anche Chiomenti, Carnelutti, Ughi e Nunziante…
Sì ma all’epoca erano strutture che gravitavano più attorno a singole personalità. Mentre a mio modo di vedere Pavia e Ansaldo e Graziadei erano studi associati veri. Poi, come dire, qualcuno era più uguale degli altri.

Graziadei pubblicò anche il suo statuto…
Vero. Un documento più complesso e meno ineguale di quanto si sia raccontato in passato. L’avvocato Graziadei era un signore di gran classe, proprietario terriero, nobile da generazioni, che poi aveva dato vita a uno studio legale di grande reputazione con una clientela all’epoca stellare.

Ad ogni modo, quel gesto fu significativo proprio perché servì a dire: “siamo un vero studio associato…

Il modello preso a riferimento fu quello delle partnership inglesi.

C’era un’anglofilia diffusa tra gli italiani?
Direi di sì, anche se un po’ celata. Una passione che è durata a lungo ma che poi è finita quando gli inglesi, negli anni ’90, sono arrivati in Italia e hanno sconvolto il mercato.

Torniamo a voi…
Nel 1975 ci si presentò la grandissima chance di aprire uno studio nuovo con un know-how rarissimo per l’epoca. Gli studi che facevano m&a o finanza in inglese (che la scrivevano, la negoziavano e la completavano) si contavano sulle dita di una mano.

E il mercato era in fase ascendente…
Seller market assoluto! La gente stava in coda. Tu entravi in studio al mattino e aspettavi che dal cielo piovesse il lavoro. Il problema era farlo. Era l’età dell’oro.

Ma cosa succede: perché nel 75 lei, Giovanni De Berti, Maria Cristina Franchini e Gianni Forlani vi siete detti: facciamo il nostro studio!
Graziadei era già anziano. Aveva 73-74 anni e li mostrava tutti. Masoprattutto nello studio c’era una prima ondata di soci molto potenti che prima di fare spazio a una nuova generazione di professionisti ambiziosa e brillante avrebbe aspettato a lungo.

Quindi, per la serie “chi ha tempo non aspetti tempo” …

In più noi godevamo di una grande autonomia nella gestione dei clienti. Questa totale autonomia dava a noi giovani avvocati (io me ne sono andato a 29 anni) il controllo del lavoro legale in Italia di realtà come Glaxo o General Electric.

Insomma avevate know-how, clienti e un mercato assetato di legali …
Siamo stati tra i primi a fare questo passo lasciando uno dei grandi studi di vecchia generazione. Siamo partiti in quattro. Oggi siamo 80.

De Berti, il più senior del gruppo (classe ‘39) nel 2013 è diventato of counsel perché ha raggiunto il limite d’età statutario?

No. Questa è un’altra delle nostre peculiarità. Lui continua a fare il mediatore. Ed è diventato of counsel per scelta. Abbiamo scelto di fare questo lavoro per fare “quello che ci pare” (detto in senso buono) e quindi nessuno ci deve dire quando andare in pensione.

Immagino che quando vi siete costituiti la pensione non fosse nei vostri pensieri. Ma crescendo, negli anni, il tema non si è mai posto?Sicuramente non ci pensavamo quando siamo partiti. Negli anni, questa regola è stata talvolta timidamente proposta e respinta senza esitazione. Quindi tutti noi fondatori siamo qua e lavoriamo. E continueremo a farlo finché ci divertirà.

Di fatto si è liberi di scegliere. E se qualcuno vuole recuperare tempo per dedicarsi ad altro può farlo?
Sì e no. Questo non è un lavoro che si può fare part-time. E chi ci ha provato è stato quasi sempre punito dal mercato. D’altra parte io sono convintissimo che lavorare faccia bene e mantenga giovani. Poi oltre al lavoro vero che faccio per la maggior parte del tempo ho una serie di attività istituzionali da svolgere in quanto senior partner a cui si aggiunge una funzione tutta mia (non statutaria) che consiste nel “dare la caccia” agli altri soci perché ciascuno dia il meglio di sé, ovviamente sempre in modo propositivo e persuasivo. Il mio animale guida, dovessi averne uno, sarebbe il border collie.

A metà anni 90, ha detto, il mercato viene squassato dall’arrivo delle law firm internazionali.
E soprattutto il mercato comincia a diventare un buyer market. Dal cielo non piove più nulla. E qui vengono fuori alcuni elementi che ci caratterizzano.

Dica.
Il primo è che noi abbiamo una compagine sociale stabilissima. E, fatti i debiti scongiuri, nei nostri 43 anni di storia non abbiamo mai avuto uscite di equity partner. Abbiamo avuto giudiziosi ingressi di equity per promozione interna e altrettanto giudiziosi lateral hire negoziati nel tempo, uno per uno e in maniera molto approfondita.

Quanti soci siete oggi?
Siamo 25 soci di cui 13 equity e 12 con varie forme. Per diventare equity occorrono diverse cose. Non c’è nulla di automatico. Bisogna produrre, avere clienti, andare d’accordo con tutti, e avere una buona dose di spirito di servizio.

Quindi i percorsi sono misurati e richiedono tempo…
Esatto. E di conseguenza il nostro tasso di crescita quantitativa è sicuramente inferiore a quello di realtà che consideriamo nostre competitor. Ma direi che ci va bene così.

Non avete mai rincorso l’ampliamento dimensionale fine a se stesso?
Precisamente. Non abbiamo mai creduto che un grande studio dovesse essere anche uno studio grande. E spiego il perché. La stabilità della compagine societaria è un elemento importantissimo perché incide sulla qualità della vita e sul clima quotidiano. Per noi, sarebbe inconcepibile pensare di avere un avversario, o peggio ancora un nemico, che vive sotto il nostro stesso tetto.

Torniamo agli elementi caratterizzanti?
Abbiamo una compagine associativa equilibrata e ben distribuita per fasce d’età e per genere. Abbiamo, in particolare, 13 soci e 12 socie. E la ripartizione 50 e 50 è rispettata dal resto dell’organico. Il bello è che ci siamo arrivati senza alcuna costrizione.

Non avete una norma statutaria sulle quote rosa?
No non l’abbiamo. E se fossi una donna che arriva alla partnership solo grazie a una questione di “quote”non so se ne sarei davvero così felice.

Quindi come ci siete arrivati?

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