Il licenziamento nullo nel nuovo articolo 18

di Angelo Zambelli*

Come noto, il cuore del disegno di legge presentato dal Governo in materia di riforma del mercato del lavoro è costituito dalle disposizioni sui licenziamenti individuali e, in particolare, dalla modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300), contenuta nell'art. 14 del disegno di legge. I primi tre commi dell'articolo in parola, nella versione sottoposta alla firma del Presidente della Repubblica, si propongono di disciplinare in modo organico gli effetti del licenziamento nullo, in parte richiamando disposizioni di legge già in vigore nel nostro ordinamento e in parte recependo principî elaborati dalla giurisprudenza. Innanzitutto, identificando i casi di nullità del licenziamento, primo fra tutti il recesso intimato per motivi discriminatori, ciò a dire determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa o razziali, dall'appartenenza ad un sindacato o dalla semplice partecipazione ad attività sindacali, ovvero ancora da ragioni di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. In questo ambito, la norma in esame non presenta alcun carattere innovativo. Infatti, sin dall'entrata in vigore della Legge 11 maggio 1990, n. 108 – ultimo intervento legislativo di carattere generale in tema di licenziamenti individuali – il licenziamento discriminatorio era affetto da nullità (già, peraltro, prevista dalla Legge 15 luglio 1966, n. 604 e dallo Statuto dei Lavoratori), con applicazione della sanzione della reintegrazione e del risarcimento del danno subìto dal lavoratore. Il testo del disegno di legge richiama, in secondo luogo, i casi di recesso datoriale nullo perché intimato a causa di matrimonio ovvero in violazione dei divieti di licenziamento di cui alla normativa in materia di tutela della maternità e paternità. La prima di tali fattispecie è oggi prevista dall'articolo 35 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), in cui il Legislatore ha disposto che il licenziamento della dipendente si presume essere avvenuto a causa di matrimonio laddove sia stato intimato nel periodo intercorrente «dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa». In proposito, risulta di particolare interesse ricordare la previsione del settimo comma del citato articolo 35, ai sensi del quale la lavoratrice che, invitata a riassumere servizio a seguito della dichiarazione di nullità del licenziamento, dichiari di recedere dal contratto, «ha diritto al trattamento previsto per le dimissioni per giusta causa», ovvero all'indennità sostitutiva del preavviso. Tale disposizione, infatti, va coordinata con quella dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, in base al quale al lavoratore, oltre al diritto di ricevere le retribuzioni sin lì perdute, è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro. La seconda di tali fattispecie riguarda il recesso intimato alla lavoratrice madre nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia da parte della lavoratrice o del lavoratore, o intimato al lavoratore padre per la durata del congedo di paternità e sino al compimento di un anno del figlio o, infine, in caso di adozione o affidamento (ai sensi dell'articolo 54, Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151). Il disegno di legge, inoltre, dispone la nullità del recesso del datore di lavoro qualora esso sia riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge (ad esempio, a causa della domanda di fruizione di congedi per eventi e cause particolari, congedi per formazione e per la formazione continua di cui alla Legge 8 marzo 2000, n. 53; oppure in frode alla legge, come ad esempio in caso di licenziamento intimato prima del trasferimento d'azienda e seguito da immediata riassunzione del lavoratore da parte dell'acquirente, al fine di aggirare le disposizioni dell'articolo 2112 del Codice Civile). È possibile altresì che il licenziamento sia nullo per motivo illecito determinante, ai sensi dell'articolo 1345 del Codice Civile. La giurisprudenza, ancorché non recente, ha ritenuto tale l'ipotesi del recesso ritorsivo, che consiste nel recesso datoriale quale ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore. Più recentemente, il licenziamento per ritorsione è stato assimilato dalla giurisprudenza al recesso per ragioni discriminatorie. Infine, in base al dettato normativo, le conseguenze del licenziamento nullo si applicano anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. In relazione a tutti i motivi di licenziamento sopra esposti, la sanzione è quella della nullità dell'atto – che è tale indipendentemente dalle ragioni formalmente addotte dal datore di lavoro a giustificazione del proprio recesso – dalla quale consegue innanzitutto il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro e dalla qualifica del lavoratore (la disposizione, infatti, si applica anche ai dirigenti). Il lavoratore ha diritto altresì ad un'indennità risarcitoria (commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto percepita dallo stesso) pari alle mensilità perdute dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione. Di particolare interesse, al riguardo, risulta la novità introdotta dalla previsione in base alla quale da tale indennità deve essere dedotto il c.d. aliunde perceptum, vale a dire quanto percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (siano esse di carattere subordinato o autonomo). Vero è che tale espressa disposizione, pur costituendo recepimento del pressoché unanime orientamento della giurisprudenza e della dottrina, imporrà al giudice una più attenta e puntuale indagine delle attività svolte e delle somme percepite dal lavoratore dopo il licenziamento. È noto, infatti, che, attualmente, l'onere della prova dell'aliunde perceptum è a carico del datore di lavoro il quale tuttavia, stante la normativa sulla protezione dei dati personali, non può accedere direttamente ad informazioni afferenti l'ex-dipendente e le attività lavorative da esso svolte. Pertanto, oggi l'imprenditore può solo limitarsi a presentare al giudice istanze istruttorie – raramente accolte – volte ad ottenere l'ordine di esibizione dei documenti comprovanti l'aliunde perceptum. Sicché si auspica che la nuova disposizione di legge introduca un'inversione di tendenza. Ciò detto, resta comunque ferma la soglia minima di indennità, pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, che spetta in ogni caso al lavoratore illegittimamente licenziato quale risarcimento del danno subito. Da ultimo, valga ricordare che il lavoratore per il quale sia stato stabilito il diritto alla reintegrazione ha facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione di tale reintegrazione, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro e che, per espressa previsione normativa, non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta di tale indennità, che non fa venir meno il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore, deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione della pubblicazione della sentenza che dichiara la nullità del licenziamento ovvero dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

*Responsabile dipartimento di diritto del lavoro, Dewey & LeBoeuf, Italia

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