IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO: DIFFICILE PENSARE A UN’EFFETTIVA FLESSIBILITA’ IN USCITA

di Angelo Zambelli*

Con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – quello per intendersi determinato, ai sensi dell'art. 3 della legge 604 del 1966, «da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» – il Disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro fa sorgere non poche perplessità, soprattutto se il fine era quello di introdurre una «disciplina in tema di flessibilità in uscita (…)». E ció soprattutto avuto riguardo all'art. 13, comma 4, che prevede – nell'ambito delle aziende che occupino alle loro dipendenze più di quindici dipendenti – l'obbligo di una comunicazione e di una procedura preventiva rispetto al recesso, della quale francamente non si sentiva la necessità e che ricorda l'(appena) abrogato tentativo obbligatorio di conciliazione, che già aveva dato di sé una pessima prova. La norma in esame, infatti, dispone che «il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (…) deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore. Nella comunicazione di cui al primo comma, il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato». A tale riguardo, ci sia permesso osservare che nel prevedere l'obbligo di questa comunicazione preventiva sembra non essere stata tenuta in conto alcuno la possibilità che il lavoratore, venuto a conoscenza di essere destinatario di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa provvidenzialmente "cadere" in malattia, con il fine non secondario di sospendere l'efficacia di un recesso che, ormai, piú che probabile, appare certo. Un escamotage, questo, tutt'altro che remoto tanto da essere perfettamente conosciuto agli operatori sul mercato del lavoro e che, con tutta evidenza, potrà rendere vischiosa la prefissata «flessibilità in uscita» del DDL. Si dirà che il Legislatore non poteva né doveva tener conto della malizia utilizzata dalle parti nel reciproco fronteggiarsi: tuttavia, bastava maggior pragmatismo al riguardo, e se proprio si voleva (la disposizione appare un'evidente concessione ad istanze sindacali), bastava prevedere l'obbligatorietà di una tale procedura successivamente all'intimazione del recesso (come nel recente passato), e non in una fase preventiva, dove almeno teoricamente non é dato neppure sapere con certezza se il licenziamento sarà impugnato dal lavoratore. In tal modo, invece, ogni licenziamento per giustificato motivo oggettivo automaticamente incardinerà una controversia, sia pure e in una prima fase solo stragiudiziale. Una volta ricevuta questa comunicazione «la Direzione territoriale del lavoro convoca il datore di lavoro e il lavoratore nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta»: in quella sede, avanti la Commissione provinciale di conciliazione, le parti – assistite, se credono, o da un delegato sindacale o da un avvocato oppure da un consulente del lavoro» – «con la partecipazione attiva della Commissione di cui al comma 3, procedono ad esaminare anche soluzioni alternative al recesso». Anche su questo punto sorge qualche perplessità, poiché è verosimile che la Direzione Territoriale del Lavoro verrà letteralmente inondata di comunicazioni quale quella in esame ed è difficile pensare che la Commissione di conciliazione possa arrivare ad avere una conoscenza sufficientemente approfondita di ciascuna situazione per poter offrire un apporto effettivamente proattivo. Trascorsi venti giorni «dal momento in cui la Direzione territoriale del lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro» la procedura si esaurisce «fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo»; dopo di che, «se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di cui al comma 3 (sette giorni, n.d.r.), il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore» che, novità rispetto alla Legge 604/66, dovrà contenere contestualmente la specificazione dei motivi. Di contro, laddove venga raggiunto un accordo conciliativo tra le parti che preveda «la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro», il lavoratore ha diritto di percepire «una indennità mensile di disoccupazione» e «può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale» l’affidamento ad un’agenzia di somministrazione di lavoro (art. 4, primo comma, lettere a) e b), D.Lgs. n. 276/2003). Quasi a voler incentivare una risoluzione positiva della procedura, la norma in esame conclude prevedendo che «il comportamento complessivo delle parti, desumibile anche dal verbale redatto in sede di Commissione provinciale di conciliazione e dalla proposta conciliativa avanzata dalla stessa, è valutato dal giudice per la determinazione dell’indennità risarcitoria di cui all’articolo 18, comma ottavo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e per l'applicazione degli articoli 91 e 92 del codice di procedura civile», vale a dire la condanna al pagamento delle spese dell'eventuale giudizio. Ma vediamo, ora, che cosa potrebbe accadere una volta irrogato il licenziamento. Ai sensi del settimo comma dell'art. 14, laddove il giudice accerti che il licenziamento è stato intimato «per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore», ovvero prima che sia stato superato il periodo di conservazione del posto di lavoro per malattia, infortunio, gravidanza o puerperio, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro: «alla reintegrazione nel posto di lavoro»; «al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione» ma che, in ogni caso, non potrà essere superiore a dodici mensilità (viene meno il limite minimo di cinque), deducendo sia il cd. aliunde perceptum che il cd. aliunde percipiendum (previsione, questa, che recepisce la consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità sul punto, e che dovrebbe comportare una modifica degli oneri probatori attualmente in capo al datore di lavoro); «al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione». Sin qui, la norma risulta abbastanza chiara. Il comma prosegue disponendo che il giudice «può altresì applicare la predetta disciplina (ovvero quella del quarto comma, cioé la reintegrazione, n.d.r.)nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo». Sí che per tale via l'ipotizzato venir meno del rimedio della reintegrazione nei licenziamenti per ragioni economiche risulta per ció stesso smentito. Inoltre sarà da verificare nella futura applicazione della norma (se sarà approvata nella versione attuale) come in giudizio la valutazione della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» e della sanzione da ricollegarsi sarà interpretata dalla giurisprudenza perché in effetti la norma sembra aprire a una discrezionalità del giudice anche nella scelta della sanzione (che non é obbligatoria ma discrezionale) che potrà introdurre ulteriori elementi di incertezza, con il rischio che la medesima fattispecie trovi soluzioni radicalmente differenti. Ma non è tutto. La norma, infatti, prosegue disponendo che «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma» (indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità dell'ultima retribuzione di fatto): sfugge, tuttavia, a quali specifiche «altre ipotesi» si riferisca il Disegno di legge. Delle due, l'una: o il motivo oggettivo é insussistente, per cui abbiamo visto la previsione della possibile reintegrazione a discrezione del giudice, o ricorre effettivamente nel caso di specie, ed allora si capisce poco l'indennità risarcitoria. Probabilmente la norma vuole riferirsi ad una distinzione tra "manifesta" insussistenza ed insussistenza, come dire, "discutibile", il cui accertamento avvenga a seguito di istruttoria e non rilevi ictu oculi. Così come sfugge a quali «criteri di cui al sesto comma» si sia voluto fare riferimento a tale riguardo: in questo caso, tuttavia, è verosimile che si sia trattato di un refuso frutto della celerità con la quale è stato redatto il testo del Disegno di legge, sicché si torrente leggere quinto comma, anziché sesto. La norma conclude prevedendo che «qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo». Una precisazione forse ridondante ma, di certo, una parte della norma per la quale non risultano necessarie delle modifiche.

*Partner, Responsabile del dipartimento di diritto del lavoro di Dewey & LeBoeuf

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