GRANDI CLIENTI E FOCUS SULLE INDUSTRY, COSÌ CAMBIA DLA PIPER
«Siamo saliti su un treno in corsa. Un treno difficile da guidare. Siamo saliti portando le nostre idee e la nostra diversità rispetto alla gestione passata». Bruno Giuffrè è l’avvocato che da settembre 2013, assieme a Wolf Michael Kühne, ricopre il ruolo di co-managing partner di Dla Piper in Italia. «Essere in due comporta delle complicazioni operative, ma allo stesso tempo arricchisce la prospettiva. E dal punto di vista del risultato siamo soddisfatti». La «gestione precedente», come molti sanno, ha un nome e un cognome: Federico Sutti, che adesso è a capo dell’area Emea della law firm. In eredità ai suoi successori, Sutti aveva lasciato la gestione di uno studio che nel corso degli ultimi dieci anni era passato dallo status di new comer del mercato a quello di prima insegna internazionale in Italia. In questo senso, la sede italiana dello studio è tra quelle che ha svolto il percorso più simile a quello compiuto da Dla Piper a livello globale: seppur fuori dal “cerchio magico” delle grandi insegne della city (per pure ragioni di lignaggio) oggi questa law firm è la prima al mondo per fatturato con 2,48 miliardi di dollari. In Italia, nonostante una frenata nei conti dell’ultimo esercizio (-3,6% si veda il numero 17 di Mag by legalcommunity) Dla Piper ha tenuto salda la posizione di preminenza raggiunta rispetto alle altre insegne internazionali, con i suoi 56,8 milioni di euro di giro d’affari. E questo è il punto di partenza per il “nuovo corso” che la gestione Giuffrè-Kühne intende perseguire e che è da poco stata presentata nel corso di un meeting che ha riunito tutti i professionisti di Dla Piper (avvocati e associate) a Milano Marittima. «Siamo partiti analizzando quello che c’era, considerando le cose che potevano essere migliorate e abbiamo cominciato a lavorare su queste», dice Giuffré. «Vogliamo conservare la nostra caratteristica distintiva: essere un forte studio italiano nell'ambito di un forte studio internazionale. In sostanza, il nostro obiettivo è consolidare il primato in Italia e continuare a crescere in qualità e reputazione».
Come pensate di raggiungere il risultato?
Stiamo lavorando su alcuni aspetti strategici.
A cominciare da…
Dalla definitiva presa di coscienza che i clienti e i mandati vanno selezionati. Il nostro studio non è adatto a tutti i clienti e a tutti gli incarichi. Questo, in qualche caso, costringe a delle scelte.
In che senso?
Per esempio, in un mercato in cui la concorrenza si fa anche e soprattutto sui prezzi, capita di dover dire di no a un cliente, pur importante, perché si decide di non lavorare senza un margine adeguato. Oppure perché in una logica di efficienza sei costretto a non accettare più clienti troppo piccoli o mandati poco redditizi.
Un bel cambiamento per uno studio che ha sempre rivendicato di essere autonomo nella sua capacità di generare lavoro…
Continuiamo ad esserlo, ma il nostro modello ora si baserà sempre di più sui large clients.
Cioè?
Idealmente, il nostro cliente è una multinazionale italiana che guarda all’estero o un gruppo internazionale che fa business in Italia. E’ un cliente che cerca uno one stop shop di eccellenza, che possa fornirgli i servizi legali di cui ha bisogno in tutte le giurisdizioni in cui opera. Il cliente ideale è quello che si può servire di molti degli oltre 70 uffici di DLA Piper nel mondo.
Considerata la media degli attori economici in Italia sembra una scelta coraggiosa. Questa cosa a tendere potrebbe portarvi a dipendere molto di più dal network, ovvero a lavorare sempre più su clienti dello studio considerato a livello globale…
Questo è fortemente auspicato. Perché vorrebbe dire che DLA Piper cresce in modo omogeneo nelle giurisdizioni maggiori. La capacità generativa dei soci italiani di DLA Piper è esemplare, e un modello per tutto lo Studio. L'assunzione generalizzata di questo modello non potrebbe che accrescerne il successo.
Ok, ma siamo sicuri che puntare sui grandi clienti non sia rischioso?
Il "grande cliente" è la nostra stella polare, l'obiettivo principale di un grande studio come il nostro. Poi rispetto a quello – considerate le difficoltà congiunturali e le dimensioni di questo mercato – dobbiamo confrontarci con la realtà e anche accettare dei compromessi. In vista di questo obiettivo, dobbiamo fare una selezione molto severa sui clienti, assumendo incarichi su cui pensiamo di poterci distinguere, raccogliere fees interessanti, ottenere riconoscimento sul mercato.
Quindi?
Quindi per esempio cercheremo anche mandati di medie imprese votate all'internazionalizzazione, le cosiddette multinazionali tascabili.
Il vostro progetto start up come si inserisce in questo quadro?
Come dice il nome, il progetto start up guarda a imprenditori con buone idee in cerca di supporto finanziario per svilupparle e che nel frattempo hanno bisogno di assistenza per impostare il loro business in maniera giuridicamente appropriata. A questi soggetti offriamo un approccio flessibile anche in termini di fees, partecipando al rischio come veri partner.
Insomma, i large client sono un obiettivo, ma il vostro approccio sarà flessibile….
Queste sono cose che non cambiano dalla sera alla mattina. C’è un’operazione Etihad l’anno (lo studio assiste la compagnia di Abu Dhabi nella trattativa per l’integrazione con Alitalia Cai, ndr) e se va bene un anno la prendiamo noi e un anno qualcun’altro. Ma il modello deve essere quello.
Come cambia la vostra organizzazione in funzione di questo modello?
Ci stiamo dotando di un'impostazione per industry o sector. Oggi il cliente non si accontenta più di sapere che sei il miglior litigator di Milano. Si aspetta che tu sia un ottimo litigator e un esperto del suo mercato. Le capacità tecniche si devono sempre più accompagnare alla conoscenza del mercato di riferimento e del linguaggio degli operatori.
Quindi un’organizzazione per industry. Una direzione in cui si muovono sempre più realtà…
In molti casi, questa è solo una trovata commerciale, un modo un po' diverso di presentare gli stessi servizi. Noi cerchiamo di realizzare una vera sintesi tra la nostra specializzazione e la conoscenza del comparto in cui opera il cliente. Quindi stiamo creando dei team multidisciplinari organizzati per specializzazione di settore.
Avete già definito quante e quali saranno queste industry?
In Italia sono 11. Lo studio legale a livello globale ne ha alcune di più. Noi abbiamo definito le industry per l’Italia tenendo conto delle specificità del mercato e delle specializzazioni dei nostri professionisti.
Ci fa qualche esempio?
Posso citare l’insurance, che seguo direttamente, l’energy che con Francesco Novelli ha un team di oltre 30 professionisti, poi c’è il fashion seguito da Giangiacomo Olivi che guida il settore anche a livello internazionale. O il real estate, guidato da Olaf Schmidt.
Qual è il significato di questa svolta?
Bisogna darsi delle priorità. Clienti sempre più importanti e approccio per settore sono le cose che consentono di concentrare le energie sugli obiettivi che vogliamo raggiungere.
Tutto questo avrà delle conseguenze interne pratiche?
Certo. Gli avvocati di DLA Piper lavoreranno avendo sempre più obiettivi comuni e una strategia condivisa. Cerchiamo di far capire che l’individualismo fine a se stesso non paga.
Una sfida culturale vera e propria, in Italia…
Siamo convinti che le qualità individuali debbano essere valorizzate. Ma lo sforzo che tutti devono fare è incanalare le energie e le ambizioni personali nella direzione giusta: quella della crescita e dell'affermazione dello Studio.
Ma sul fronte della remunerazione cosa succede?
Partiamo dagli associate. Abbiamo fatto negli anni un enorme sforzo per rendere il sistema trasparente e razionale. Passando da un regime che, per ragioni storiche, prevedeva soluzioni individuali a un sistema piuttosto articolato che prevede una progressione di carriera e remunerazione con la crescita dell’anzianità e della esperienza, a cui si affianca una parte del compenso in base variabile a risultati qualitativi e quantitativi misurabili.
Mentre adesso?
Il sistema quest’anno è stato leggermente modificato con un aumento della parte variabile (che ora può superare il 30% ndr) crescente con la seniority dei professionisti. Il messaggio che vogliamo dare è che i colleghi devono essere animati da un forte spirito di iniziativa, assumendosi una quota della sfida imprenditoriale che lo studio affronta, nell’ambito di un percorso che conduce i migliori alla partnership.
Un invito alla responsabilizzazione?
I segnali che abbiamo dato dicono che noi vogliamo premiare e incentivare i collaboratori migliori, quelli che vorremmo avere come nostri compagni di strada per i prossimi 10 o 15 anni e che, secondo noi, rappresentano il futuro di questo Studio. La carriera “ministeriale” non ha mai avuto senso e ne ha ancora meno adesso.
E quanto ai soci?
Sulla remunerazione dei soci pensiamo di avere fatto un lavoro importante. Abbiamo un sistema con qualche rigidità, ma abbiamo cercato di valorizzare non solo i risultati finanziari misurabili, ma anche con il contributo più ampio che i soci danno, che include l'impegno nei progetti strategici dello studio, e la capacità di distinguersi all'interno dell'organizzazione e nel mercato. Anche in questo caso, il messaggio è: non siamo lavoratori a cottimo, non contano solo le ore "billate", ma vi è un complesso di valori e qualità che vengono tenuti in considerazione e che formano, o meglio identificano il socio di DLA Piper.
L’Italia è rimasto uno dei pochi Paesi europei dove gli studi indipendenti nazionali conservano la vetta del mercato. Voi avete superato i concorrenti inglesi e americani. Ora nel mirino ci sono i big nazionali?
In questo momento il distacco tra noi e i primi studi italiani per fatturato è ancora ampio. Noi siamo cresciuti tanto. Sperare di avvicinarsi ancora è legittimo. La prospettiva è alla nostra portata perché abbiamo ancora notevoli margini di miglioramento. Ma l’evoluzione complessiva del quadro dipende molto anche da cosa fanno gli altri.
Cosa si aspetta?
I grandi studi nazionali hanno sicuramente un problema di ricambio generazionale e di concorrenza nei mercati globali, che noi non abbiamo. Inoltre, da noi tutti i soci contribuiscono alla crescita, ma nessuno è indispensabile. Il gruppo è più importante. Credo invece che nei grandi italiani vi siano soggetti di cui non è possibile fare a meno.
Quindi è possibilista…
Le posizioni potranno cambiare ancora, perché da un lato noi continueremo a crescere e dall’altro nel mercato domestico prima o poi succederà qualcosa. Mi sembra storicamente inevitabile…