Gli avvocati non restino ai margini della stagione di riforme
Sono settimane che la parola riforma torna insistentemente nel dibattito politico e sociale sulla giustizia. Ne abbiamo parlato anche qui (si veda il numero 162 di MAG). E la sensazione è che questa sia la volta buona. Ovvero, che stavolta il cantiere che si aprirà per dare una nuova impronta all’organizzazione e amministrazione di una delle funzioni più importanti dello Stato, sarà un cantiere veloce e capace di concludere i lavori in modo definitivo, nei tempi previsti.
Sappiamo che ci sono alcuni miliardi (contando in euro tragati Pnrr) di buone ragioni per ritenere che questa previsione sia qualcosa di più di un semplice auspicio. E purtroppo constatiamo che anche in questa storica occasione per poter contribuire costruttivamente e incidere sul cambiamento, l’avvocatura è tenuta in disparte.
Si tratta di un problema. Anzi, di più: di un grave errore. Chi lavora alle riforme della giustizia (nelle sue varie declinazioni, dal civile al penale, passando per il fiscale e l’amministrativo) non può non tenere conto della funzione che, nel sistema che si vuole costruire (più efficace ed efficiente), dovranno svolgere gli avvocati. Operatori del diritto. Garanti dei diritti. Esponenti di una professione che non può essere considerata un “di cui” della questione complessiva, ma che ne è parte costituente e che pertanto andrebbe coinvolta e integrata tanto nei ragionamenti, quanto nei processi.
Purtroppo questo non sta accadendo. L’avvocatura stessa, sembra più interessata alle proprie beghe condominiali legate alle diatribe su doppi mandati e corse alle poltrone, che non ad occuparsi di incidere, facendo la propria parte e rivendicando un ruolo sacrosanto, in quello che con tutta probabilità sarà un punto di non ritorno nella costruzione del nuovo sistema-giustizia nel Paese. Moderno, aperto a nuove procedure, guidato da nuovi obiettivi, ispirato a nuovi principi. Si tratta di un progetto che punterà a riscrivere le regole del gioco e nel quale la professione ha il dovere di capire che ruolo potrà esercitare e in che modo.
Vivere nella convinzione che, qualunque sarà il nuovo layout del sistema-giustizia, gli avvocati continueranno a fare gli avvocati così come hanno sempre fatto dalla notte dei tempi, potrebbe essere esiziale. Managerializzazione, organizzazione, diversificazione, digitalizzazione. Sono concetti che si stanno rapidamente facendo largo nella descrizione della giustizia che verrà. Una giustizia che non potrà fare a meno dell’avvocatura. Ma che con tutta probabilità avrà bisogno di un’avvocatura nuova. Adatta ai tempi e alle funzioni che le saranno attribuite. Un’avvocatura che va rifondata e di cui dovranno occuparsi in primis gli avvocati stessi.
Il Legislatore, infatti, intento a lavorare a testa bassa sulle riforme, sta trascurando (convinto anche lui che gli avvocati siano una questione incidentale, rispetto al disegno complessivo) il ruolo della professione. Commissioni ed esperti, nelle quali gli appartenenti alla categoria forense sono una minoranza assoluta, non sembrano troppo preoccupati di capire quale sarà la collocazione dei 250mila iscritti agli Albi nel nuovo assetto.
Eppure sembra del tutto evidente che non potrà essere la solita.
I primi ad accorgersene saranno gli avvocati stessi. Quando le riforme cominceranno a far piovere i loro effetti sulle toghe e si renderà necessario, in una riedizione del 2006, correre ai ripari, tentare di mettere una toppa, provare a raddrizzare una situazione ormai definita.
E a quel punto, aver deciso quanti potranno essere i mandati per ricoprire a buon diritto cariche istituzionali negli organismi di autogoverno della categoria, sarà soltanto una magra consolazione.
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