Gli avvocati della cannabis light e il rebus normativo

di elisabetta barbadoro

Passeggiando per le vostre città, ultimamente, vi sarà senz’altro capitato di veder sbocciare qua e là insegne di negozi specializzati nella vendita di cannabis light e suoi derivati.
Il fenomeno è decisamente concreto sebbene si tratti ancora di un business alle prime battute e contornato da numerosi punti interrogativi sul piano delle regole. Coldiretti sottolinea come la superficie delle coltivazioni si sia estesa, dal 2013 al 2018, da 400 a 4mila ettari: un “boom” del 900% in cinque anni. Secondo i numeri del Registro delle imprese, poi, fino al 2018 sono nate almeno 850 nuove attività commerciali in questo settore. Il fatturato? Qui le cifre attendibili sono davvero poche. Molti stimano, attualmente, che il comparto muova un giro d’affari di 40 milioni. Ma, lo sottolineiamo, si tratta di un dato da prendere con le pinze.

Ad accendere il business della cannabis light hanno contribuito in maniera pressoché determinante la legge 242/16 e le lacune normative in essa contenute. «La legge speciale 242 è un’occasione persa – ha detto il penalista Carlo Alberto Zaina, titolare dello studio omonimo di Rimini – è fatta piuttosto male, perché dopo un ampio dibattito non ha avuto il coraggio di inserire le infiorescenze nell’ambito delle destinazioni d’uso elencate all’articolo 2». Zaina è intervenuto alla tavola rotonda su “La normativa vigente e le prospettive future”, durante l’Hemp Fest, la fiera internazionale della canapa, che si è tenuta a Milano dal 3 al 5 maggio scorso. Il comparto, in questi giorni, aspetta con trepidazione una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione che dovrebbe fare chiarezza una volta per tutte sul tema (si veda il box).

La profonda incertezza normativa che circonda la legge sulla canapa, giudicata dalla maggioranza degli avvocati attivi nel settore come gravemente lacunosa, rende allo stesso tempo particolarmente difficile e fondamentale il lavoro dei legali che assistono investitori, imprenditori e soggetti che hanno deciso di tuffarsi in questa fetta di mercato.
Il rischio di superare la sottile linea che separa “quello che si può fare da quello che non si può fare”, è sempre dietro l’angolo. Per questo il tema dominante è senza dubbio quello della compliance.

Ma andiamo per ordine. Il primo servizio chiesto dagli imprenditori interessati a entrare nel business della canapa è sempre una consulenza: i soggetti che possono concretamente avviare un’attività di coltivazione sono esclusivamente gli imprenditori agricoli i quali non hanno bisogno di un’autorizzazione. «Sconsigliamo ai non addetti ai lavori di improvvisarsi coltivatori» dice a MAG Lorenzo Simonetti, partner, insieme a Claudio Miglio, dello studio Tutela legale Stupefacenti, boutique del settore.

Una volta superato lo step della consulenza, nell’avvio dell’attività si parte quasi sempre da un’autodichiarazione di semina: una sorta di informativa alle forze dell’ordine utile a garantire una prima forma di tutela. A spiegarlo a MAGè l’avvocato Giuseppe Libutti, titolare dello studio omonimo: «Anche se non è obbligatoria, io faccio compilare ai miei clienti la comunicazione di semina, così se, ad esempio, i carabinieri arrivano in un campo sanno già che lì c’è una coltivazione di canapa. In realtà si tratta di un atto per semplificare il lavoro al mio contradditore, che è l’agente di polizia».

Il capitolo controlli, com’è facile immaginare, risulta il più delicato: proprio a causa dei limiti normativi e della sottile linea tra la filiera autorizzata della canapa e…

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