di nicola di molfetta
Sono settimane che la questione etica è tornata al centro del dibattito sulla professione forense. Dopo la multa da quasi un milione di euro inflitta dall’antitrust al Cnf, si è acceso un intenso dibattito su deontologia e decoro, tutto incentrato su questioni di tasca (tariffe sì, tariffe no) e di concorrenza (con le polemiche sulla pubblicità).
Ne abbiamo già parlato. Sullo sfondo c’è un universo professionale sempre più frastagliato e impoverito. Del resto, lo sappiamo, sono tempi grami per le libere professioni. E a rendere il tutto ancor più difficile da sopportare c’è la diffusa convinzione che la misura dell’affermazione individuale nell’avvocatura o in altri campi si esprima unicamente o principalmente nel successo economico degli individui.
Qualche giorno fa, durante un convegno intitolato Etica delle professioni legali svolto alla Cattolica di Milano, una giovane avvocata che ha chiesto a uno dei relatori come trovare “maestri” da cui apprendere l’etica si è sentita rispondere: «C’è il codice deontologico!».
In realtà pensiamo che, al di là degli enunciati teorici, ci siano professionisti che hanno testimoniato in modo molto chiaro quello che è il significato dell’essere avvocato. Il nome che, stando qui a Milano, dovrebbe venire naturale citare è quello di Giorgio Ambrosoli (nella foto) assassinato l’11 luglio del 1979 quando era ancora commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona.
Oltre alle letture istituzionali, forse, sarebbe il caso di suggerire ai giovani professionisti anche qualche libro che racconta la sua storia come Un eroe Borghese di Corrado Stajano o Qualunque cosa succeda di Umberto Ambrosoli.
«È indubbio che in ogni caso pagherò a molto caro prezzo l’incarico (…) Lo sapevo e non mi lamento (…) È stata un’occasione di fare qualcosa per il Paese». Queste sono le parole che Giorgio Ambrosoli usa in una lettera, che aveva scritto per sua moglie Annalori e che in qualche modo rappresentano il suo testamento morale e spirituale.
Uno scritto che si dovrebbe far leggere e studiare a tutti coloro i quali decidono di avvicinarsi alla professione forense perché, al di là dei riferimenti alle possibili conseguenze private che l’assolvimento del suo incarico potrà comportare («Qualunque cosa succeda, sai cosa dovrai fare…Farai sempre il tuo dovere, costi quel che costi»), questa lettera esprime nel modo più profondo la consapevolezza che l’esercizio della professione forense implica un’immensa responsabilità sociale.
Ambrosoli mise le mani dove solo pochi avrebbero avuto il coraggio, andando contro uno degli uomini più potenti del momento, forte anche di pesanti appoggi politici. Probabilmente fu proprio questa la ragione che spinse l’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, a sceglierlo per verificare lo stato passivo della Banca Privata.
Nella lettera a sua moglie, Ambrosoli, dichiara di essere felice di avere avuto un’occasione di fare «politica per il Paese e non per i partiti». Fare politica nel senso più alto. Senza aspettarsi nulla in cambio, senza pensare al proprio tornaconto, senza considerare opportunità di arricchimento.
Assolvendo il suo compito fino in fondo, verificando i reati legati alla bancarotta e denunciandoli nella piena consapevolezza di ciò che questo avrebbe comportato in termini di rischio personale («Sono solo»), Giorgio Ambrosoli ha scelto di essere davvero e fino alla fine un avvocato e di lavorare per la Giustizia.
L’avvocatura italiana, in questi anni di difficoltà e comprensibili preoccupazioni per la propria quotidianità, forse dovrebbe occuparsi anche di promuovere e celebrare esempi come quello dell’avvocato Ambrosoli, divenuto eroe suo malgrado, ma convinto fino in fondo dell’importanza di compiere il suo dovere come professionista e avvocato.