Equo compenso, Tar e sentenze boomerang
di nicola di molfetta
Clienti forti. Avvocati “indifesi”. Tariffe che crollano sotto la soglia del decoro. E dai Tribunali amministrativi cominciano ad arrivare i primi “stop”. Chi ci segue da tempo sa bene come la pensiamo in materia di paracadute preferenziali dedicati ai professionisti. E soprattutto sa che siamo da sempre convinti che il mercato sia comunque destinato a dettar legge quando si tratta di definire le regole d’ingaggio nel rapporto tra domanda e offerta.
Ma i recenti sviluppi in materia meritano qualche riflessione aggiornata.
L’estinzione dei minimi tariffari obbligatori ha spinto molti soggetti “compratori” di servizi e assistenza legale a spingere al massimo i ribassi nella definizione dei prezzi a cui acquistare sul mercato tali attività. ?A ciò si aggiunga il sempre più frequente ricorso (da parte di privati così come di soggetti pubblici) a procedure di gara, in molti casi, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in altri, addirittura, con quello del massimo ribasso. E a questo punto non ci sarà più molto da stupirsi se si apprende che, un anno di assistenza giuridico-legale può essere appaltato a un singolo avvocato da un piccolo Comune per meno di 600 euro al mese.
È quanto accaduto in un paese del Salento e ha provocato la reazione indignata dell’Ordine degli Avvocati di Lecce che ha deciso di impugnare il bando con cui l’amministrazione locale aveva messo in palio l’incarico: base d’asta 18mila euro, vince chi offre di meno. E così è stato, visto che l’offerta che si è aggiudicata l’appalto è stata di 7.000 euro: 583 euro al mese, per l’appunto.
Il ricorso al Tar, come si è appreso lo scorso 24 gennaio, ha prodotto per il momento la sospensione del bando con un’ordinanza da parte del giudice amministrativo che ora dovrà entrare nel merito della vicenda.
Tuttavia questa decisione si inserisce nel solco di alcuni precedenti. Quello più noto e che ha suscitato maggior clamore, risale a poche settimane prima. In questo caso si tratta della sentenza con cui il Tar Sicilia ha annullato la delibera adottata dal Comune di Gela che aveva disposto un avviso pubblico esplorativo per l’individuazione di tre avvocati (a cui veniva anche richiesto di costituirsi in associazione temporanea di scopo) a cui affidare incarichi professionali.
Tra le ragioni che hanno portato il giudice amministrativo siciliano ad annullare la delibera c’è anche il fatto che «la previsione di un compenso onnicomprensivo di 20mila euro per ciascun avvocato, oltre all’80% delle spese di soccombenza e al 5% sulla differenza tra somma richiesta e quella liquidata nelle mediazioni, è molto al di sotto dei minimi tariffari e, conseguentemente lede il decoro e il prestigio della professione». Del resto, l’attività che aspetta gli avvocati che dovranno svolgere questo incarico non appare di poco conto. Il contenzioso del comune siciliano, secondo quanto si è appreso, ha un valore di circa 10,7 milioni per il 2014 e di 4,2 milioni per il solo primo semestre del 2015. Insomma, come hanno sottolineato i ricorrenti, il compenso per singola causa definito dalla delibera era decisamente esiguo.
In attesa che il legislatore si muova, è l’autorità giudiziaria (amministrativa, in questi casi) a tuonare contro le tariffe low cost soprattutto se imposte da un committente “forte”. Presto però potrebbe cambiare qualcosa anche sul fronte delle norme.
Intervenendo al Congresso nazionale forense, lo scorso ottobre, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando aveva annunciato l’intenzione del Governo di mettere mano a un disegno di legge sull’equo compenso per gli avvocati. La prima bozza del provvedimento parafulmine, per proteggere i legali italiani dalla deriva ribassista a cui sono soggetti, sarebbe ormai pronta a passare da Via Arenula a Palazzo Chigi. Certo, come testimoniano questi fatti recenti, una legge del genere dovrebbe far scattare le tutele non solo nei confronti di banche, assicurazioni e imprese ma anche delle pubbliche amministrazioni e degli enti locali. Lasciarli fuori suonerebbe quantomeno stonato e comunque non affronterebbe il problema nella sua interezza.
Inutile dire che molti di questi passi avanti (o indietro?) verso il ripristino di un sistema di tutele per garantire per legge un reddito accettabile a tutti i 240mila avvocati italiani, vengono salutati con grande giubilo dalla popolazione forense.
Il clima ormai è di vero e proprio entusiasmo. In alcuni casi sembra quasi di sentire i cori: “pagherete caro pagherete tutto”. Persino le email di contatto. Qui, tra gli applausi di tante toghe, c’è stata una sentenza della Cassazione che ha stabilito che un messaggio di posta elettronica inviato a un avvocato per un parere o un chiarimento può essere fatto valere come prova del conferimento di un incarico e, pertanto, fatto pagare.
Ma attenzione agli effetti collaterali che questa recherche del reddito perduto rischia di produrre.
Il lavoro va pagato sempre, giusto. Va pagato adeguatamente e decorosamente, giusto anche questo, soprattutto se si considera che un reddito adeguato è garanzia di indipendenza per ogni libero professionista (non solo per gli avvocati). Ma far passare il messaggio che ogni interazione con uno studio legale o un avvocato debba essere accompagnata dal sottofondo di un tassametro sintonizzato sui nuovi minimi inderogabili, rischia di allontanare tanti clienti e di fare più male che bene.
Il rischio, infatti, è di resuscitare l’opinione pubblica che un tempo vedeva l’avvocato come il professionista al quale bisognava rivolgersi solo in situazione di estrema gravità. Mentre per il resto, poteva bastare l’opinione di un parente o il parere del proprio portiere che da sempre, come diceva con intelligente ironia un compianto ex presidente dell’Ordine di Milano, era il consulente di prima istanza della gran parte degli italiani.
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