Diversity? Care avvocate, siate le madri del cambiamento

di nicola di molfetta

 

Cosa c’è che non va? Cosa non funziona? Diversity e gender balance tengono banco nelle campagne di comunicazione degli studi legali da anni. Ma il cambiamento, l’inversione di rotta rispetto a secoli di dominio maschile nel lavoro e nelle professioni, non arriva. O stenta terribilmente a farlo.

Qual è il passaggio che manca? Cos’è non scatta e fa sì che le donne siano ancora oggi, a dispetto dei numeri, considerate minoranza?

Il prossimo 5 luglio prossimo ne discuteremo durante i nostri Diversity Awards. Ma una riflessione preliminare sul tema, può essere utile.

Parliamo di avvocati. Un argomento che da queste parti mastichiamo abbastanza.

L’ultimo rapporto Censis sulla professione forense in Italia saluta come un traguardo importante la femminilizzazione della categoria. Oggi, nel Paese, la popolazione legale si divide praticamente a metà tra avvocati uomini e colleghe donne.

Il dato, tuttavia, a parere di chi scrive è davvero poca cosa anche perché le donne, come evidenzia la Cassa Forense, sono inchiodate a redditi estremamente più bassi di quelli dei loro colleghi incravattati (si veda in proposito l’articolo in questo MAG).

Per non parlare del fatto che spesso femminilizzazione della professione fa rima con impoverimento.

Ma restiamo in tema. Le donne, che pure oggi sono un avvocato su due, non solo hanno redditi tendenzialmente più bassi degli uomini, ma non sono ancora riuscite a scalare la gerarchia delle organizzazioni a cui appartengono in maniera consistente.

Se prendiamo i primi 20 studi legali associati per numero di partner attivi in Italia (si veda il MAG 101) scopriamo che le socie sono in media il 20% delle partnership. In media. Perché presi, uno a uno, troveremo studi dove le partner sono anche una ogni sei o addirittura una ogni 8 soci.

Questo a mio avviso è il dato che merita la riflessione più profonda. Perché se tante non riescono a raggiungere posizioni di rilievo negli studi legali, non può essere solo colpa delle dirette interessate.

«Non ce la fanno perché non ci credono». «Non ce la fanno perché non ce la mettono tutta». «Non ce la fanno perché non si fanno avanti».

Queste frasi le abbiamo sentite tante volte. Ma contengono solo una fetta della verità. Descrivono solo una porzione del quadro.

Se le donne faticano ancora tantissimo ad affermarsi nella professione è anche perché non agiscono per raggiungere un’affermazione “politica” del cambiamento.

Si tratta di una responsabilità che inevitabilmente resta in capo a chi in vetta ci è arrivata e con la sua storia personale ha dimostrato che farcela è possibile.

Questo dovrebbe essere solo l’inizio. Il primo passo.

Il traguardo personale non può esaurire il compito che ognuna ha scelto di darsi nel momento in cui ha deciso di sostenere la causa della valorizzazione della diversità e dell’equilibrio di genere.

Le avvocate di successo dovrebbero essere le madri del cambiamento. Ovvero essere le promotrici di quel famoso nuovo paradigma organizzativo che dovrebbe rendere possibile l’affermazione di un modello professionale diverso.

Del ruolo che in questo percorso sono chiamati a giocare anche gli uomini abbiamo scritto già in altre occasioni e quindi non staremo a ripeterci.

Stavolta, invece, consentiteci di aggiungere un elemento scomodo. Una nota dissonante alla sinfonia.

Non prendetela come una critica. Ma come un invito. Un’esortazione.

Ce n’è bisogno? I dati e il mondo fuori dai salotti ci dicono di sì.

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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