DC, lo spettacolo legale… continua
Cambiare la grammatica della narrazione legale non è semplice. Farlo usando i social aggiunge sicuramente un ulteriore grado di difficoltà. Se poi la piattaforma in questione è Instagram allora l’impresa in cui si è scelto di cimentarsi è da vera e propria cintura nera di comunicazione.
Se ne sono accorte due avvocate torinesi, Alessandra Demichelis e Federica Cau, penalista la prima, civilista la seconda, che nell’ultima settimana sono balzate agli onori delle cronache grazie al loro progetto DC_LegalShow: un diario per immagini della vita (reale) di due professioniste del diritto a Torino.
L’elevato tasso di glamour dei primi post ha messo subito in chiaro che questa iniziativa avrebbe riservato molte sorprese, introducendo un modo nuovo di rappresentare il quotidiano di due avvocate in carriera. Il 2 gennaio è partito un vero e proprio count down con il claim: «Per la prima volta lo show legale sarà reale». Quindi, tre giorni dopo, il primo video: una sigla che ha inaugurato lo spettacolo attirando migliaia di follower. E qui si è aperto un mondo. Il mondo di DC_LegalShow che come una finestra sulla vita delle sue due protagoniste ha proiettato immagini colorate, allegre, modaiole, tra momenti di relax a cena o in una spa, e scatti sul lavoro, tra pratiche e discussioni nelle stanze eleganti di uno studio del capoluogo piemontese.

«Abbiamo voluto realizzare una rappresentazione reale di quello che può essere la vita di un’avvocata», dice Demichelis a Legalcommunity.
La prima volta che ci è capitato di guardare la pagina Instagram del duo DC, i follower erano quasi 3mila. In neanche una settimana sono diventati 11mila. E la contabilità sembra destinata a crescere ancora, visto il clamore che DC_LegalShow sta suscitando, dividendo il pubblico, come nella migliore delle tradizioni italiche.
C’è chi le critica. Ma c’è anche chi le incoraggia e persino le ringrazia per aver avuto la capacità di immaginare un’iniziativa capace di rappresentare uno spaccato dell’avvocatura moderna fuori dai soliti cliché di polverosa austerità.
Tra coloro a cui non è piaciuta l’operazione c’è lo studio con cui Demichelis e Cau collaboravano che ha deciso di interrompere il sodalizio. L’Ordine, intanto, le ha convocate per un colloquio i cui contenuti, tuttavia non sono stati resi noti («non mi sembra corretto parlarne», ha ribadito Demichelis).
Ma siccome the show must go on Demichelis e Cau hanno deciso di non demordere. E andare avanti con l’iniziativa che in questi giorni, oltre ai post dal sapore Lex & The City, comincia a integrare anche contenuti legali.
A dire il vero, il 19 gennaio, l’avvocata Cau ha fatto sapere di voler prendere una pausa. Fare un passo indietro in attesa di «riproporre, in futuro, nuovi e rimodulati materiali e argomenti».
Demichelis, invece, ha subito chiarito che sarebbe andata avanti comunque. E a Legalcommunity ha detto che anche la collega Cau tornerà presto. Anche perché lo show legale comincia a popolarsi dei primi contenuti giuridici, anche qui con una formula che prova a mettere assieme informazioni utili e “impaginazione informale”.
«Non facciamo le influencer e non è nemmeno nostra intenzione diventarlo. Siamo avvocate e ci interessa fare il nostro lavoro», prosegue Demichelis. Magari, a questo punto, aprendo un loro studio. «È un’opzione – dice Demichelis – così come ci sono stati diversi studi che ci hanno proposto di andare a lavorare da loro. Vedremo». Prima sarà il caso di uscire da questo frullatore mediatico che, siamo abbastanza certi, non sarebbe stato altrettanto tumultuoso se a spingere in maniera così decisa su un’iconografia di successo e vita sociale fossero stati due impomatatissimi avvocati fatti a immagine e somiglianza di Harvey Specter e Mike Ross, protagonisti della serie Suits.
Non vogliamo buttarla sulla questione di genere. Ma è quantomeno curiosa la coincidenza. Torino, la città dove lavorano Demichelis e Cau, è stata anche la prima città d’Italia in cui una donna volle diventare avvocato: 139 anni fa.
Si chiamava Lidia Poët. La sua semplice ammissione all’Albo, nel 1883, suscitò scandalo e polemiche al punto che l’iscrizione, datata 9 agosto, fu cancellata da una decisione della Corte d’Appello l’11 novembre successivo.
Tra le argomentazioni che portarono alla sentenza (che non solo negava alla Poët di essere un avvocato, ma sosteneva che le donne non fossero adatte alla professione) ci fu, tanto per cambiare, la stigmatizzazione dell’abbigliamento delle future colleghe, le quali avrebbero potuto creare imbarazzo indossando la toga sui loro abiti «strani e bizzarri». Intervistata dal Corriere della Sera il 14 novembre, l’avvocata oggi divenuta simbolo e icona dell’emancipazione professionale femminile, tra l’altro, commentò: «Per conto mio, questo timore è vano».
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