«CONSULENZA SOTTOPAGATA, È ORA DI DIRE BASTA»

«Far percepire al cliente il valore aggiunto che è insito nella prestazione di un avvocato è una questione di approccio. I legali italiani devono smettere di svendersi e imparare a negoziare le proprie parcelle». La voce che grida nel deserto del dumping commerciale è quella di un avvocato italiano che, però, da oltre 30 anni vive e lavora tra Boston e New York City, negli Stati Uniti. Si chiama Ettore Santucci (nella foto) ed è socio dello studio Goodwin Procter: otto uffici tra Usa, Hong Kong e Londra; circa 900 avvocati e un giro d’affari che, nel 2013, si è attestato oltre 752 milioni di dollari. Santucci, dopo essersi laureato a Bologna con Romano Prodi e aver lavorato per un periodo in Nomisma, ha fatto le valigie ed è partito per l’America. «Era il 1982», racconta a Mag by legalcommunity.it, «e in Italia la possibilità di fare business law era piuttosto limitata. Erano pochi gli studi che si occupavano della materia». Così decise di partire per Boston e frequentare la Law school. Nel 1985 entrò in White & Case a New York. Ma un anno dopo si trasferì a Boston da Goodwin Procter dove lavora da 28 anni. Santucci si occupa di m&a, capital makets e real estate investment trust. Tra i suoi clienti ci sono società come Empire State Realty, Avalon Bay e Boston properties. E anche se non è mai diventato avvocato in Italia, con il suo Paese lavora spesso in operazioni cross border che rappresentano circa il 20% della sua attività complessiva. Il primo deal fatto in Italia, a inizio anni 90, fu la joint venture tra Putnam Investments e la Cisalpina (gruppo Bipop). Era l’alba dei fondi pensione, un mercato che provava ad attecchire nel Bel Paese replicando modelli e «tecnologie» basate sull’esperienza americana. Di recente, invece, l’avvocato ha lavorato agli aspetti di diritto Usa dell’investimento di United Ventures One in Cloud4Wi. Se da un lato l’attività cross border è quella che lo diverte maggiormente, Santucci non nasconde la grande difficoltà che si incontra a lavorare nella Penisola: «Spesso capita di avere per le mani dossier che sembrano perfetti, con tempistica ideale e struttura ottima. Ci si lavora uno o due mesi e poi tutto si ferma. Perché?»  

Già, perché?
Perché secondo me, gli investitori internazionali continuano a guardare l’Italia come un sistema che in un modo o nell’altro riesce sempre a farsi male da solo.   
In che senso?
Negli ultimi anni, l’Italia è passata attraverso tre diversi cicli economici senza mai riuscire “a prendere l’ascensore”, a differenza di Spagna, Irlanda e persino della Grecia. È sopravvissuta a tutti, ma non ne ha sfruttato nessuno per tornare a crescere.  
Anche gli avvocati italiani si stanno facendo del male da soli?
Uno dei grossi problemi che gli avvocati hanno in Italia è che quando si siedono davanti a un potenziale cliente prima di tutto parlano di loro stessi: quanto sono bravi, quanto sanno, quanto scrivono. Poi appena si è finito di parlare di quello, si attacca a parlare di quanto sono convenienti. In particolare, sul piano del prezzo.  
Con quali conseguenze?
In questi incontri, il potenziale cliente viene “demolito” prima ancora di aver avuto occasione di parlare del quid, ossia della ragione per cui è venuto in studio.  
E come la mette con il detto: “un avvocato ascolta quanto basta e parla più che può”…
Guardi, è come se uno andasse dal medico e anziché sentirsi chiedere cos’ha che non va (?) si sentisse recitare con prosopopea infinita le qualità del dottore, i suoi studi e la sua eccellenza, sentendosi dire, infine, che costa pure poco. Il mal di stomaco sarebbe ancora lì e il paziente si andrebbe a cercare un altro medico.  
E quindi?
Dinanzi al cliente, dopo essersi cordialmente e rapidamente presentati, la prima cosa da fare è tacere. O meglio, ascoltare quali sono le ragioni che lo hanno portato da noi. Così gli si fa capire che si è lì per lui, per aiutarlo a realizzare un obiettivo.   
E dei costi non si parla?
Dei costi non si parla. O meglio, se ne parla solo alla fine, ovvero solo quando si sa cosa si deve fare.   
In Italia, tanti pensano che l’unico modo per differenziarsi sia fare leva sul prezzo…
Conoscere il costo di un servizio è essenziale, intendiamoci, ma non può essere preliminare. Deve essere conseguente. Io non posso prezzare un servizio che non posso definire. Cosa vuoi mangiare? Filetto o cotica?  
Beh certo…
Se, invece di parlare prima di valore e poi di prezzo, si procede al contrario, si crea la sensazione che la prestazione e la funzione del legale siano solo un “male necessario”.  
Ovvero un puro costo…
Esattamente. È la logica che è falsata. E il ruolo dell’avvocato e la sua prestazione divengono oggetto di un comprensibile tentativo di massimo ridimensionamento visto che di questi tempi sono tutti ossessionati dall’idea di risparmiare e tagliare.  
In Italia siamo al paradosso che le operazioni straordinarie vengono considerate commodity mentre il valore si crea con l’assistenza continuativa…
Il problema è che essendoci molti avvocati e poche operazioni, chi riesce a firmare un deal di prestigio, ha la possibilità di rivenderselo sul piano dell’auto promozione e del marketing. Lo studio può dire di aver fatto l’operazione dell’anno. E il cliente, che questo lo sa, cerca di portare la parcella al livello di costo.  
Chiaro. Ma secondo lei ha senso la politica del lavorare per marketing?
Assolutamente no. Ai clienti bisogna far capire che un avvocato gestisce un business. Ha dei costi, delle risorse e ha delle aspettative di profitto.

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