Carnelutti, ritorno a Londra con Stefano Macchi di Cellere. MAG incontra Arnaboldi

di nicola di molfetta

Quando Luca Arnaboldi, managing partner di Carnelutti, attraversa gli spazi della nuova sede di Corso Venezia, lo fa con l’aria di chi sa che un trasloco, a volte, racconta molto più di quel che sembra. Non è un semplice cambio di indirizzo: è un modo per dire dove lo studio vuole andare, e soprattutto come intende farlo. «Principe Amedeo omaggiava il passato, Corso Venezia guarda al futuro», afferma. Il nuovo palazzo, patrizio, affacciato sul Planetario e segnato dagli interventi storici di Gio Ponti, è stato ripensato da Archestral di Stefano Colombo con un obiettivo preciso: «Lavorare meglio e con maggior efficienza, non è finalizzato a un’ulteriore crescita fine a sé stessa».

Gli spazi parlano la lingua della sobrietà. Nessun lusso ostentato, nessuna estetica urlata. «Niente eccessi (che poi finirebbero col pagare i clienti), ma uffici più tecnologici, contemporanei e meno indulgenti dei precedenti. Insomma, più sostanza e meno fronzoli», dice Arnaboldi. È un approccio che sintetizza perfettamente ciò che lo studio è oggi: pionieri nella tradizione, come lui stesso ama ripetere.

La propensione al nuovo

Per comprendere Carnelutti oggi, bisogna guardare indietro. «(Oltre) 125 anni di esistenza non sono proprio pochissimi», premette Arnaboldi. Ma non è la longevità l’elemento distintivo: è il modo in cui quello studio ha attraversato il tempo. «Una lunghissima militanza può a buon diritto definirsi sinonimo di affidabilità nonché indice di solidità ed equilibrio».

Nel racconto del managing partner riaffiora una costante: l’innovazione come metodo, non come eccezione. «Una costante propensione verso scelte sorprendentemente nuove», che negli anni ha portato Carnelutti ad anticipare tendenze poi diventate mainstream: la forma associativa, la governance manageriale, l’apertura internazionale. «In senso figurato una “fucina” di novità e idee, che poi altri hanno copiato, utilizzato e anche migliorato».

A questo si aggiunge un’attenzione alla comunicazione – rara quando è nata, oggi indispensabile – e una strategia di brand che parte dal patronimico del celebre giurista per diventare marchio riconoscibile nel mercato legale.

Una misura “giusta” per competere

Dietro la nuova sede c’è un’idea molto chiara di dimensioni. «Sì, le dimensioni sono più o meno quelle», conferma Arnaboldi: 35 partner, 12 of counsel e 82 tra associate e trainee. Lo studio è attualmente governato da un comitato esecutivo composto da sei partner: oltre ad Arnaboldi, ne fanno parte Margherita Bariè, Paolo Baruffi, Gilberto Comi, Francesco Francica e Salvatore Nolasco, affiancati nella gestione da uno staff di 10 manager coordinati dal recente arrivo di Marco Caria, nuovo direttore generale proveniente dall’industria informatica. «È un perimetro equilibrato e sostenibile, che riteniamo ideale per coprire il mercato italiano e le aree in cui desideriamo eccellere».

Questa struttura manageriale si innesta su una workforce caratterizzata da un 55% di componente femminile, da un’età media di 38 anni e da una rappresentanza geografica che copre 18 regioni italiane su 20. Tutto il personale professionale dello studio è almeno bilingue (inglese) e nel 90% dei casi laureato con il massimo dei voti. Una configurazione che riflette una visione del lavoro lontana dalla logica industriale. «La risposta non risiede necessariamente nel fatturato, nel novero dei professionisti o nel numero delle sedi. Non è sui numeri che si costruisce una legacy, ma sui valori e su un’artigianalità personalizzata, che naturalmente non passa attraverso l’industrializzazione dei processi o la scalabilità del modello di business o, peggio, l’utilizzo massivo e indiscriminato dell’intelligenza artificiale.»

Da qui il tema del work/life balance: «Per i nostri professionisti è il nostro obiettivo principale, senza per questo rinunciare alla competitività, ai risultati e alla tempestività dell’execution».

Londra: una stretta di mano che vale un ritorno

Il nuovo anno porterà anche un’altra importante novità. Carnelutti torna a Londra. Il nuovo capitolo inglese mette insieme storia e strategia. «Londra conosce il nostro studio sin dalla fine degli anni Sessanta. Primo studio italiano ad aprire in loco e tra i primi dell’Europa continentale. Dovevamo tornare, ce lo imponeva la nostra storia».

La svolta è arrivata con Stefano Macchi di Cellere, di Macchi di Cellere, residente nella capitale britannica da quindici anni. «Macchi di Cellere è un brand riconosciuto. I brand si conoscono e riconoscono tra loro. Non c’è stato bisogno di lunghe conversazioni o accordi contrattuali particolari. Abbiamo chiuso in un paio di incontri e una stretta di mano».

Macchi sarà resident partner. E Arnaboldi è chiaro: «Questo ritorno sarà foriero di ulteriori opportunità, che difficilmente possono materializzarsi senza una presenza credibile e permanente sul territorio».

Gli Stati Uniti: passo leggero, radici profonde

Se Londra si rafforza, la scelta sugli Stati Uniti è diversa: niente più sedi dirette a New York o Los Angeles. «Per gli USA abbiamo scelto la formula di un light footprint: non più presenti direttamente, ma attraverso due/tre relazioni privilegiate», spiega Arnaboldi. Una struttura che permette ai clienti di «non percepire alcuna discontinuità rispetto al servizio».

Le ragioni sono anche politiche: «Negli Stati Uniti è sempre più complesso operare direttamente per gli studi italiani, sia per le nuove politiche sui dazi, sia per le restrizioni introdotte sui visti e i permessi di lavoro.» Una fase «transitoria», secondo Arnaboldi. Intanto resta un punto fermo: «Abbiamo sempre come advisor di riferimento l’avvocato Duccio Mortillaro (oggi socio di Fox Rothschild Llp, ndr), da oltre trent’anni radicato negli USA».

Il mercato, tra arrivi e ritirate silenziose

E, a proposito di Usa, Arnaboldi si mostra abbastanza scettico riguardo gli ingressi recenti di law firm americane in Italia: «Mi sembrano più esperimenti legati a relazioni molto personali, che progetti di radicamento consistente».

Poi aggiunge un punto spesso poco discusso: «Mi pare che sia in corso una non conclamata contrazione della presenza di studi americani (e internazionali in genere). Ci sarà quindi ancora più spazio per gli avvocati italiani, a condizione che essi sappiano garantire gli standard di qualità ormai diffusi sulle principali piazze e mercati in giro per il mondo.»

Accademia e istituzionalizzazione

Accanto alla nuova sede, lo studio lancerà una nuova identity: «Contribuirà ulteriormente alla istituzionalizzazione del nostro brand.» E continuerà a coltivare un tratto distintivo: la vocazione accademica. «Da un lato eleva lo spessore tecnico del nostro know-how, dall’altro rappresenta tangibilmente la nostra vocazione di give-back alla comunità cui apparteniamo.» A guidare il comitato scientifico è il professor Dario Latella (University of Oxford), affiancato da partner con ruoli universitari e figure che dallo studio sono approdate a incarichi istituzionali come Roberto Cassinelli (giudice costituzionale) e Francesco Bestagno (consulente giuridico a Bruxelles).

Indipendenti, per DNA

Sul futuro, Arnaboldi è categorico: «Carnelutti Law Firm resterà indipendente. Non ci sono progetti aggregativi, fusioni o simili in corso, né all’orizzonte.»

Non significa chiudere le porte. «Noi parliamo con tutti. In alcuni casi abbiamo esaminato progetti comuni piuttosto seriamente. Tuttavia, lo studio ha nel proprio DNA la vocazione all’indipendenza e la consapevolezza di poterlo rimanere per molto tempo ancora.» Un brand solido, un ricambio generazionale garantito, relazioni di lungo periodo. E quella curiosità che Arnaboldi rivendica come cifra culturale: «Nel nostro percorso abbiamo dimostrato di essere anche visionari e curiosi. Questo ci spingerà sempre a tenere gli occhi aperti.»

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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