AVVOCATI, TRE MOSSE PER RILANCIARE LA PROFESSIONE
di nicola di molfetta
Tanti, poveri e pericolosi. Il 27 marzo, nell’auditoriuim dello studio legale La Scala di Milano, è stato celebrato il primo “processo” all’avvocatura italiana. E questi tre aggettivi sono quelli che forse più di tutti sono adatti a sintetizzare il quadro della categoria che è emerso dal dibattito. Andando oltre gli stereotipi e i luoghi comuni abbiamo cercato, assieme a interlocutori di grande spessore, di capire perché la categoria sia oggetto di continui attacchi mediatici e come mai sia spesso additata come uno degli ostacoli principali alla crescita e allo sviluppo del Paese.
In questa prima “udienza” sono state illustrate le cause da cui origina la cattiva fama di cui gode la categoria e quelle che potrebbero essere le soluzioni per farle recuperare dignità e reputazione. In estrema sintesi, si potrebbe dire, che i problemi dei legali italiani dipendono dalla loro quantità, dalla loro condizione economica e dalla mancanza di lucidità in cui rischiano di incorrere nell’esercizio delle loro funzioni.
Negare che gli avvocati italiani siano troppi, non è possibile. Ma l’abbondanza di toghe non è un problema in sé. Piuttosto lo sono le sue due principali conseguenze. La prima è che, in un mercato piccolo, come quello Italiano, c’è il rischio che non vi sia spazio per tutti gli oltre 230mila avvocati che affollano gli Albi con la conseguenza che per tanti professionisti, l’esercizio dell’attività forense non sia più in grado di garantire il sostentamento personale. La seconda è che un avvocato povero è un avvocato “pericoloso”. Ossia un avvocato che, per sopravvivere, può cadere nella tentazione di spingere un cliente ad affrontare cause inutili o infondate, contribuendo ad affogare di lavoro i Tribunali e ad aggravare la posizione del proprio assistito.
Ma le condizioni per ripartire ci sono. E anche queste possono essere sintetizzate in tre concetti chiave: formazione, selezione e innovazione. Il futuro della professione forense va costruito a cominciare dall’università. Il numero chiuso non deve essere più un tabù e le facoltà di Legge non devono più essere il parcheggio di neo diplomati incerti su cosa diventare da grandi. Dopo l’università, però, deve essere il mercato a effettuare l’ulteriore scrematura. E se ci sono avvocati che non riescono a vivere del loro lavoro bisogna avere il coraggio di prevedere la loro esclusione dagli Albi come conseguenza diretta della loro esclusione dal mercato. Ma c’è un terzo e fondamentale punto da tenere in considerazione: l’innovazione. Oggi tanti avvocati rinunciano alla professione perché sopraffatti da un contesto asfittico che non offre opportunità agli ultimi arrivati e ai figli di nessuno. ?Tuttavia, queste sabbie mobili, che a Milano risucchiano un avvocato ogni due nuovi iscritti, possono essere debellate avendo il coraggio di cambiare il modo di esercitare la professione, di rivedere la funzione che un legale può svolgere nel contesto socio economico in cui opera, aprendo la strada alle specializzazioni, stimolando formule innovative di servizio e incentivando l’organizzazione del lavoro in forma imprenditoriale.
Tra i tanti dati emersi nel corso del dibattito ce n’è uno che è stato rappresentato come un problema ma che a mio personale avviso può essere parte della soluzione. L’avvocatura italiana, oggi, è più che mai giovane. Il 75,8% degli avvocati ha un’età compresa tra 24 e 49 anni. Sono le forze nuove della professione quelle che possono e devono agire per il cambiamento. Se si aspetta che lo facciano i vecchi padroni del vapore, è come aspettare che i tacchini facciano la riforma della festa del ringraziamento.
Il dibattito è aperto.
nicola.dimolfetta@legalcommunity.it