Avvocati, il silenzio degli innocenti

di nicola di molfetta

“Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorché questi vi consentano”. Partiamo da qui. Prendiamo il toro per le corna. Codice deontologico forense. Articolo 35. Comma 8. Carta canta. E fa niente che la melodia, all’alba del 2025, possa risultare stonata: questo è. La partitura è questa. Per il momento.

Il dibattito sulla possibilità per gli avvocati di fare o meno i nomi dei loro clienti in occasioni di comunicazioni al pubblico è stato rilanciato da una sentenza (n. 294/24) del Cnf di fine dicembre. Una decisione piombata come una doccia gelata sui tavoli in corso per la riforma della legge professionale che, ormai nel lontano 2012, provò a dire qualcosa sulla questione adottando una soluzione di mezzo che di fatto non ha sciolto il nodo cruciale dell’attività di informazione legale: dire qualcosa di utile al pubblico.

E perché sapere chi assiste chi, in quali questioni, e con quali professionisti costituirebbe un’informazione di pubblica utilità? Credo che moniseur Lapalisse cadrebbe dalla sedia di fronte a tale quesito. Ma siccome non esistono domande inutili, una risposta la diamo. Perché nella avvocatura delle specializzazioni e nell’avvocatura dei 240mila e passa iscritti agli albi, trovare un professionista adatto (c’è chi usa il termine utile) alla soluzione di un problema ovvero alla gestione di una bega qualsiasi, non è cosa semplice.
Non è vero che un avvocato vale l’altro. Su questo credo che ogni avvocato sia d’accordo. E non perché i professionisti si sentono tendenzialmente un po’ tutti marchesi del Grillo (“io s’ io…”). Non è vero, perché la competenza e la capacità di azione (efficace) al fianco dell’assistito di turno maturano e si consolidano con l’esperienza. E l’esperienza è comprovata non solo da titoli acquisiti a valle di lunghe e (quelle sì) discutibili trafile burocratiche, bensì con l’archiviazione, anno dopo anno, di una serie di casi che costituiranno le fondamenta della credibilità del legale e ne certificheranno la consistenza in modo oggettivo e fattuale.

Il tanto invocato codice deontologico ha un altro articolo che ritengo altrettanto rilevante rispetto al 35, se non di più. È l’articolo 14, che non a caso viene molto prima di quello dedicato alle iniziative di comunicazione. Qui si parla del dovere di competenza. Il dettato della norma è infraintendibile: “L’avvocato, al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali, non deve accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza”. Il dovere di dire “no” è figlio della consapevolezza che gli avvocati non sono tutti uguali. Che i cittadini hanno il diritto di chiedersi “Quali Avvocati?” prima di affidare a qualcuno la loro salute civile. E che l’unico modo per contribuire a formare questo bagaglio di conoscenza nelle persone è (anche) quello di metterle nella condizione di informarsi: sapere chi ha fatto cosa; per chi l’ha fatta; con quali risultati e quante volte.

Questo rischia di tradursi in forme di promozione? La malizia, ha detto Michelangelo Buonarroti, è negli occhi di chi guarda. Se i clienti sono d’accordo, un avvocato che ha lavorato bene, ha ottenuto un risultato utile, ha contribuito a orientare la giurisprudenza, ovvero ha aiutato un comparto ad evolvere e crescere, ha tutto il diritto di farlo sapere. Ovvio, attenendosi al dovere di dire le cose in modo veritiero, senza enfasi, e con trasparenza.
Diversamente, chiedetevelo: l’imposizione di questo silenzio degli innocenti, a chi gioverà?

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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