Avvocati e grandi dimissioni, la questione diventa prioritaria
di nicola di molfetta
Gli americani le chiamano great resignation: le grandi dimissioni. Il fenomeno si sta diffondendo a macchia d’olio da un capo all’altro del pianeta. E non esclude nessuno. Sono sempre di più i millennial (e non solo) che lasciano. Rinunciano a un lavoro stabile e ben retribuito perché cercano “altro”. Qualcosa di meglio. Qualcosa che li soddisfi sul piano professionale, economico, ma anche umano e personale. E l’ordine d’importanza dei valori in gioco non è necessariamente questo.
Un lavoro che consenta di vivere. E non un’attività sul cui altare sacrificare la propria esistenza. Nessuno è escluso. Nemmeno gli avvocati super pagati degli studi d’affari e delle grandi realtà organizzate.
«Non ti basta più pagare un collaboratore 200mila euro l’anno per chiedergli di fare una vita di merda». Le parole sono del fondatore di una delle super boutique più in auge sulla scena nazionale. Ovviamente sono un off the record. Ma descrivono bene la portata della questione. E la difficoltà del problema da gestire. Perché il dialogo tra le parti in causa in questo confronto generazionale avviene tra soggetti che parlano due idiomi completamente differenti.
Negli Stati Uniti, il bureau delle statistiche sul lavoro ha registrato, tra agosto e dicembre 2021, l’uscita volontaria dal lavoro di oltre 700mila persone impiegate nel settore dei servizi professionali: avvocati inclusi.
Un recente rapporto della Georgetown University/Thomson Reuters Institute ha rivelato che i tassi di turnover tra gli associati nella AmLaw 100 hanno raggiunto il 23,2% nel 2021 con un aumento del 24% rispetto ai tassi di turnover pre-pandemia. E questo nonostante gli incrementi delle retribuzioni e dei bonus (parliamo di oltre il 15% nel 2021 rispetto al 2% nel 2020) di cui questi professionisti hanno beneficiato.
In Italia, abbiamo visto tanti avvocati rinunciare all’iscrizione all’Albo nel corso del 2021. Ma anche qui, quello che più colpisce è la rinuncia al lavoro in strutture dove un giovane professionista viene inserito in una macchina da profitti che sembra promettere, carriera, ricchezza e benessere sopra la media delle statistiche di categoria.
Il punto è a che prezzo? Questa è la domanda su cui si misura il disallineamento culturale tra i boomer che guidano molte organizzazioni legali e che sono cresciuti in un’epoca in cui la realizzazione professionale si misurava in zeri sul conto e voci patrimoniali, e i millennial che cominciano a popolare gli uffici dove un tempo si allevavano piccoli avvocati d’assalto e adesso invece si accudiscono i nuovi giuristi nelle incubatrici del work-life balance.
La prima volta che ci siamo occupati del tema su queste pagine è stato a marzo 2020 (si veda il numero 137 di MAG) e non a caso a sollevare il tema è stata una delle realtà di vertice del mercato. Una di quelle che ha visione sul futuro.
La “guerra dei talenti” è una condizione in cui ogni organizzazione calata in un contesto competitivo è abituata a operare. Tuttavia, per riuscire vincitori da questa battaglia, oggi, bisogna usare armi e strategie completamente diverse da quelle del passato. Non è solo un problema di denaro. Piuttosto si tratta di una partita che si gioca sul piano del “significato”: dei valori e della cultura di studio.
Quello che in molti stanno imparando a chiamare purpose è ciò che riempie di senso l’attività dei professionisti del futuro perché è ciò in cui si rispecchia la loro identità collettiva ed è ciò di cui si nutre il loro senso di realizzazione personale e professionale. I talenti vanno attirati e poi conservati. Questo è il doppio tempo su cui si gioca la risposta delle organizzazioni legali alla questione delle grandi dimissioni. Per gli studi legali comincia a diventare un’urgenza anche se non siamo ancora al picco. E questa è la buona notizia.
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