Avvocati, è business. Verso la finanziarizzazione della professione

di nicola di molfetta

Cronache dal futuro. O storie sotto l’ombrellone. Non importa. Ma l’editoriale dell’estate, in attesa di raccontare dettagli e scenari che le grandi manovre in corso sul mercato legale locale si apprestano ad aprire, abbiamo pensato di dedicarlo a una notizia arrivata nei giorni scorsi da Oltremanica. Dwf, law firm internazionale quotata sul mercato principale della Borsa londinese, potrebbe passare a un private equity.

A confermarlo, lo scorso 10 luglio, è stato lo studio stesso che, contattato dalle agenzie, ha confermato di essere in trattativa per essere (forse) acquisito dal private equity Inflexion, in un’operazione di buyout valutata, secondo quanto riferito, intorno ai 342 milioni di sterline. Inflexion è un private equity specializzato in investimenti di media taglia, già noto al mercato dei servizi legali perché nel 2018 ha acquisito il controllo della più prestigiosa directory legale europea: Chambers and Partners.

Dwf ha dichiarato che sta discutendo un’offerta in contanti di 100 pence per azione che rappresenta un premio del 52,7% rispetto al prezzo di chiusura di venerdì 7 luglio di Dwf in Borsa. Nulla è ancora deciso, ma i giochi sono aperti.

E qui finisce la cronaca. Tuttavia, questa vicenda, a prescindere dal fatto che l’operazione Dwf-Inflexion vada in porto o meno, ci racconta, anzi ci conferma un dato che andiamo evidenziando da anni: l’attività legale non solo è sempre più un’attività d’impresa (per spirito e attitudine) ma è sempre di più un’attività di business vero e proprio. La dicotomia professione/mercato sembra sempre più sfumata e questo, tra le altre cose, dipende dal fatto che uno studio legale, oggi, sta sul mercato sempre più con un approccio aziendale, con un’organizzazione conseguente e con un ruolo che lo rende parte del sistema economico finanziario esattamente come ogni altro operatore che contribuisca alla catena del valore. Quindi, come tale, uno studio legale diventa (può diventare) anche il possibile target per un fondo di private equity che per mestiere seleziona società ad alto potenziale di crescita, in cui iniettare capitali e da cui estrarre valore.

La vicenda della law firm inglese che, ricordiamolo, è presente anche in Italia dove nell’ultimo anno ha registrato una crescita del 21%, apre importanti scenari su cui riflettere. In particolare: come cambierà lo scenario competitivo se la professione legale diventerà una professione finanziarizzata?  
Che questa sia una variabile tutt’altro che secondaria nelle dinamiche del settore lo dimostra la curva ascendente che, negli ultimi anni, ha caratterizzato l’andamento degli studi legali collegati alle cosiddette big four della consulenza che continuano a conquistare market share anno dopo anno.
E che questa sia una eventualità tutt’altro che remota (persino nel piccolo mondo antico che, talvolta, può sembrare l’Italia) lo segnala il crescente numero di studi che decide di organizzarsi in forma societaria, la diffusione del fenomeno del litigation funding e la moltiplicazione di progetti professionali che tendono a industrializzare alcune aree di pratica magari anche grazie al ricorso alle nuove tecnologie. Il ricorso al mercato dei capitali per dare ulteriore spinta a questi progetti diventerà, in molti casi, un passaggio prevedibile e naturale.

La professione non è “altro dal” ma “parte del” mercato. E cominciare a considerare l’attività professionale in chiave di business potrebbe presto rivelarsi urgente almeno per due ragioni. La prima è la necessità di governare un fenomeno evolutivo che avrà un impatto profondo sul settore e sul suo funzionamento. Secondo preparare la categoria a un cambiamento che si preannuncia più radicale di quello vissuto negli ultimi trent’anni e che implicherà, assieme alla rivoluzione tech, un sostanziale ripensamento della forma-studio: sempre meno fucina professionale e sempre più impresa di servizi, scalabile e contendibile.

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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