AVVOCATI (ANCHE) PER CENSO
di nicola di molfetta
Vi siete mai chiesti cosa fa di un professionista, un avvocato? Certo che sì. E sicuramente, come spesso accade quando ci si pone quesiti così “alti”, vi siete dati risposte che avevano a che fare con la giustizia, la verità, i diritti e ogni altro grande valore civile che un giurista contribuisce a garantire attraverso la propria attività. C’è poi un altro fattore, però, che senza ombra di dubbio rende un professionista, un avvocato. Si tratta di qualcosa di molto meno nobile e di molto più concreto: il fatto che qualcuno lo paghi per farlo.
La questione reddituale è al centro del dibattito forense da mesi. E, dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale (n.192 del 20 agosto) del Regolamento che detta le condizioni agevolate (700 euro anziché 2.800 per i primi 8 anni) per l'iscrizione alla Cassa forense per chi ha un reddito inferiore a 10.300 euro l’anno, c’è da scommettere che le polemiche alimentate da chi è contrario all’obbligo si moltiplicheranno esponenzialmente. Anche perché tra meno di tre mesi, chi non sarà iscritto all’ente previdenziale della categoria, dovrà cancellarsi dagli albi. Le iniziative anti Cassa sono già partite. Dalla campagna di fax per contestare «l’onerosità della contribuzione previdenziale», alla raccolta di fondi per promuovere azioni amministrative e impugnare la normativa introdotta dall’artico 21 della nuova legge forense (247/12).
A rischio di risultare impopolari, però, dobbiamo dire che il coro di proteste che si è sollevato e che probabilmente diventerà assordante in occasione del prossimo congresso nazionale forense di Venezia ci sembra fuori luogo. Dire che questa norma punta solo a tagliare di netto il numero degli iscritti agli albi e a razionalizzare con l’accetta le dimensioni della popolazione togata in Italia, significa prospettare solo una parte dei fatti.
Certo, la volontà di sfoltire gli elenchi professionali è innegabile nella ratio della legge. Ma va detto anche che la strada scelta sembra rispondere a criteri di buon senso. ?Insomma, uno può dirsi avvocato solo se fa l’avvocato. ?«Chi dichiara 10.300 euro non può pagarne, a regime, 3.700 alla Cassa!», si legge in un blog. Ma la verità è che chi dichiara meno di 10.300 euro non riesce a vivere dei frutti della sua attività di avvocato. Infatti, si tratta di un professionista che guadagna 860 euro lordi al mese e che, quindi, a meno che non viva in un isolotto tutto suo, nutrendosi di ciò che cresce spontaneamente sugli alberi e di ciò che riesce a cacciare usando arco e frecce, difficilmente riuscirà a mantenersi autonomamente.
Dire che questa norma crea avvocati per censo è vero, ma nel senso che spinge chi vuole svolgere questa professione a ingegnarsi per riuscire a farlo in maniera sostenibile, trasparente e, perché no, con spirito imprenditoriale, sostenendo per ben 8 anni (la fase di start up di una qualsiasi attività economica non dovrebbe mai superare i 5 anni) il suo sforzo contributivo, garantendo comunque una copertura previdenziale e inducendo il professionista in questione a pensare alla propria carriera sul lungo periodo.
?In Italia, secondo i dati della Cassa forense (si veda l’articolo in questo numero di Mag by Legalcommunity), il reddito medio del 92% degli iscritti agli Albi è pari a 18.438 euro l’anno. Vale a dire che, stando alle dichiarazioni degli avvocati, nove su dieci portano mediamente a casa meno di 800 euro netti al mese. La cifra, a nostro personalissimo parere, sembra poco credibile e se fosse vera creerebbe una situazione di vero allarme sociale. L’economia che viene mossa dall’attività forense deve emergere nella sua interezza. L’obbligo introdotto dall’articolo 21 va anche in questa direzione. La casta e il lignaggio non c’entrano nulla. E’ una questione di equità e di onestà intellettuale. Un professionista è tale se riesce a vivere della propria attività. Per sola passione, ci si trova un hobby.
nicola.dimolfetta@legalcommunity.it
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