Avvocati a lezione di management da Quincy Jones

di nicola di molfetta

«Ma la tua è proprio un’ossessione!». Qualche giorno fa un amico avvocato mi ha scritto in privato su Instagram questa frase. Era un commento spiritoso alla mia bibliografia che, effettivamente, fino a oggi è dedicata quasi integralmente alla categoria. Poi, qualche giorno dopo, mentre nella beatitudine di un sabato pomeriggio me ne stavo in poltrona a guardare il documentario di Netflix sui quarant’anni di We are the World, ho pensato che quell’amico aveva davvero ragione.
Se mentre sei lì, che osservi con gli occhi pieni di nostalgia per i bei tempi andati le immagini di quel super raduno di rock star mondiali che in una notte compirono il miracolo di registrare un singolo da 20 milioni di copie (che raccolse 100 milioni di dollari destinati alla causa della fame in Africa), ti viene da pensare che Quincy Jones, il super produttore di quel lavoro e uno dei personaggi chiave per il successo del progetto assieme a Michael Jackson e Lionel Richie (autori del brano), dovrebbe essere studiato nelle scuole di management degli studi legali, effettivamente, un po’ ossessionato dagli avvocati lo sei!
Già, perché, quando ho rivisto quelle sequenze che, come per molti altri della mia generazione, rappresentano una parte fondamentale della mia educazione sentimentale, non sono riuscito a fare a meno di pensare al mitico Quincy nei panni del managing partner di una super law firm d’affari, e ai vari Stevie Wonder, Bob Dylan, Ray Charles, Tina Turner, Paul Simon, Bruce Springsteen e Cyndi Lauper, in quelli dei soci del suddetto studio, tutti riuniti per una fondamentale assemblea destinata a gettare le basi strategiche  per il successo futuro dell’organizzazione.
Per il caro Quincy, che il prossimo 14 marzo compirà 91 anni (e che ancora nel 2022 ha collaborato con The Weeknd nella produzione dell’album Dawn FM), non fu affatto semplice far funzionare quella macchina infernale imbottita pressoché in egual misura di talento musicale e alta considerazione di sé.
Fu così che il suo genio gli suggerì d’intervenire prima che accadesse l’irreparabile, ovvero prima che l’anarchia prendesse il sopravvento all’interno della sala in cui erano stati radunati i 45 componenti del progetto Usa For Africa. Prima che ognuna di quelle stelle del firmamento pop americano cominciasse a dire la sua su come variare il testo e l’intonazione di una strofa. O ancora, prima che gli artisti cominciassero a discutere di quale dei loro nomi doveva apparire in cima ai credits del disco in uscita, ovvero di quale delle loro facce dovesse essere più visibile nelle immagini che dovevano comparire sulla copertina del 45 giri o nelle sequenze del videoclip che sarebbe valso uno dei quattro Grammy conquistati da We are the World nel 1986.
Cosa fece Quincy? Come riuscì in quest’impresa che, come vedete bene, sembrava avere dell’impossibile e che, come sapete altrettanto bene, è quella che in molti dei vostri studi si vive periodicamente quando c’è un’operazione straordinaria da annunciare, un lateral hire da valorizzare oppure, un piano industriale da approntare?
Il magnifico mister Jones fece due cose. Entrambe fondamentali.
La prima fu far trovare ai suoi “soci”, all’ingresso degli A&M Studios di Hollywood, un cartello che a caratteri cubitali recitava: Check Your Egos at the Door. Più o meno: Lasciate il vostro Ego all’ingresso.
La seconda, invece, fu chiedere a Bob Geldof, altro responsabile dell’iniziativa assieme a Harry Belafonte, di raccontare nel dettaglio (prima che tutti cominciassero a cantare e registrare) quale fosse veramente la condizione in cui le popolazioni africane che lui aveva visitato l’anno prima si trovavano, e perché il lavoro che tutti si stavano apprestando a fare, nel suo insieme, sarebbe stato molto più importante delle performance dei singoli.
È vero, anche oggi, qualunque coach preparerebbe l’impresa parlando di team work e purpose. Ma senza scrivere una hit destinata a entrare nella storia della musica.   

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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